A come Amore
A COME AMORE
Carissimi,
partiamo da una premessa.
Ho sempre mal sopportato San Valentino. L’ho sempre trovata una festa con poco senso, in parte per una mia forma di idiosincrasia per le ricorrenze, in parte perché ho sempre trovato un po’ ridicola questa mania di farsi regali con i cuori, uscire e pagare il doppio un pranzo e una cena perché “è San Valentino”.
Detto questo però sto leggendo una fraccata di cose sull’amore e se devo riprendere questo argomento è bene che sia oggi.
Che siate in coppia o da soli. Che stiate benissimo o siate un po’ acciaccati. Che abbiate ritrovato una forma di fiducia nel genere umano e nei sentimenti oppure no.
San Valentino, se posso dargli un significato new normal, dovrebbe essere la festa del benessere. Dell’amore per noi stessi senza il quale non ci sarebbe l’amore per l’altro. Quel dire “ok io sto bene, posso volerti bene senza buttarti addosso tutti i miei buchi e le mie mancanze”. Auspicando un incontro che non sia un mutuo soccorso di disequilibri e frustrazioni. Che non sia una via di fuga, una deresponsabilizzazione, un dire “va bè, male che vada c’ho lui/lei/*”. Ma sia una scelta, presa con convinzione, impegno, meno idealizzazione e più presa di coscienza del reale. Più spazzolino da denti (per riprendere una frase che vi avevo già condiviso) meno principe azzurro sul cavallo bianco con il ciuffo biondo fissato con la lacca.
MA ANDIAMO PER ORDINE E INIZIAMO CON SIMONE
“Quando avevo conosciuto Sartre, avevo creduto di aver raggiunto tutto; accanto a lui non avrei potuto mancare di realizzarmi; adesso mi dicevo che riporre la mia salvezza su qualcuno che non sia noi stessi è il più sicuro mezzo di correre alla propria perdita”.
Ho riletto questa frase di Simone De Beauvoir, contenuta ne L’età forte il libro che ho suggerito per questa challenge di febbraio/marzo, tante volte.
“Riporre la salvezza su qualcun altro che non sia noi stessi è il più sicuro mezzo di correre alla perdita”. Il mio percorso di analisi è nato così, come spesso accade.
Dalla perdita e dall’abbandono. Dalla necessità di “essere salvati”.
Dal credere che l’amore sia il completamento perfetto. Che senza di esso siamo cuori spezzati, persone spezzate. Incomplete, sole.
E se l’ha fatto Simone De Beauvoir, intelligente, emancipata, una delle più grandi filosofe di sempre, figurati io o noi… ci siamo cascati tutti. Nel pensare che l’amore sia un punto di arrivo. Sia la massima aspirazione, la più grande forma di realizzazione.
Quando penso all’amore penso ai ricordi. Quei ricordi che solitamente rimangono appiccicati in fotografie che non riusciamo a cancellare dal telefono. Riguardiamo i nostri sorrisi, il senso di benessere, quel dirci “caspita ora mi sento felice”.
Rimpianto, senso di vuoto.
Fallimento, incompiutezza.
Ma forse la cosa che fa più male, penso a distanza di tempo, ora che la sofferenza se né andata, ora che forse sto ritrovando fiducia, è la nostalgia di quei pezzi di noi.
Ogni volta che viviamo una perdita, un abbandono, una separazione, perdiamo dei pezzi di noi che chissà dove finiscono. Sarebbe bello provare a immaginare le loro vite alternative. Pezzi di noi che camminano per le strade, si evolvono, cambiano e si trasformano. Fanno i figli che forse noi non avremo, imparano a cucinare, leggono libri che noi non leggeremo mai.
Ma la verità è che quei pezzi di noi che stanno attaccati alla definizione che ci diamo attraverso gli altri, quando gli altri non ci sono più, diventano i nostri resti. Cocci spezzati con cui dobbiamo fare i conti, nell’assenza e nella nostra solitudine.
Le rotture portano sempre a una disintegrazione. Della nostra identità (oddio io senza di te chi cavolo sono), dei nostri progetti (moh che faccio), un evaporare dei nostri pensieri felici.
Lavorando su noi stessi. Da “quello che rimane”, passando attraverso la solitudine (che va arredata il più possibile come diceva Edith Wharton per creare un luogo dove rifugiarci ogni volta che vorremo per ritrovare noi stessi) possiamo costruire. E non perché siamo supereroi, come ripeto spesso, ma se dobbiamo dare un “senso” alla nostra vita, che almeno ci porti ad un miglioramento e ad un crescita.
Io la penso così.
E non la penso così perché segua particolari dettami religiosi o perché “bisogna pensare positivo”. Ma perché ho scelto per me la volontà di cercare di stare bene. E cerco di stare bene perché sono grata alla vita, a me stessa, al sole, alle piante, agli animali, al piccolo Marcello, alla mia famiglia, agli esseri umani che ho intorno. Si può scegliere anche di stare male e struggersi. Dallo stare male e dallo struggimento sono nate meravigliose poesie e favolosi romanzi, indimenticabili canzoni e argute riflessioni.
Ma io non sono Cioran, né Luigi Tenco (per fare due nomi che mi vengono in mente). Sono una persona non particolarmente dotata di abilità filosofiche né artistiche, sono una donna che cerca il suo modo di stare nel mondo nella maniera che a lei risulta più intelligente possibile.
E il mio modo è non struggermi, è trovare la chiave per dare un senso alle cose, veicolare le mie emozioni. Raccontare quello che mi piace.
Quindi tornando al tema: i nostri cocci sono un’enorme opportunità per trovare questa via. Per capire in che modo sentirci a posto con noi stessi. Sentirci al nostro posto (potremmo anche dire: ritrovare la nostra autenticità, ma questo tema lo affronterò in una newsletter ad hoc…).
E soprattutto liberarci da quell’idea culturale, atavica, per certi versi deresponsabilizzante dell’intervento salvifico dell’amore.
L’amore non ha niente di salvifico. L’amore è un gran casino. Che ci destabilizza, ci sballa, non ci rende per niente persone migliori.
VI SPIEGO PERCHE’:
L’amore è inspiegabile: non sappiamo perché il nostro interesse, la nostra pulsione, il nostro desiderio convergono verso una persona. Non sono mai le persone migliori sulla terra. Non ci si innamora perché una persona è buona, è ordinata, ha una forte coscienza civica, potrebbe governare l’Italia meglio di Draghi (speriamo).
Non c’entrano i valori intrinseci dell’altro (certo di solito siamo attratti da persone con cui abbiamo qualcosa con cui spartire… per lo meno... sarebbe auspicabile, ma non è assolutamente scontato). C’entra qualcosa di assolutamente irrazionale (per Jung l’amore era fondamentalmente un fatto quasi magico, Hillman parla di “destino”) che ci butta verso l’altro.
Proust non sa perché tra tutte le cicliste gli piaccia proprio Albertine. Non è la più bella, non è la più coraggiosa o la più dotata. È una tra tante ma negli occhi di lei vede la possibilità della felicità e connessa ad essa, la paura di perdita di se stesso e del proprio centro.
L’amore ci rende immediatamente manchevoli. Tutta quella solidità, le nostre zone di comfort, il nostro “arredamento” rischia di venire stravolto dall’incontro con l’altro. L’altro arriva per come è e confonde tutto. Ci fa sentire le nostre mancanze, ci fa percepire la mancanza di qualcosa che è fuori di noi (l’amore è doloroso rendersi conto che qualcosa fuori di noi è reale- Iris Murdoch). Stavamo così bene e centrati da soli!
L’amore fa nascere in noi sensazioni tremende: la gelosia, la rabbia, il senso di vendetta. Può farci diventare possessivi, ossessionati. In amore ho tirato fuori sia le parti più belle di me che quelle più orrende, oscure, che nemmeno pensavo di possedere. E se ci penso provo ancora vergogna per me stessa stesa sul divano a scrivere e cancellare messaggi, controllare spunte, attendere spiegazioni che non sarebbero mai arrivate (e forse mai sarebbero potute arrivare).
L’amore ci mette costantemente in dubbio come oggetto amoroso. Meravigliosi, sensualissimi e scintillanti per un periodo (di solito i primi 12 mesi che possono essere 18 se ci va molto molto bene). Poi la noia e l’abitudine rischiano di offuscare nell’occhio dell’altro la nostra immagine. In buona sostanza: da “incredibile desiderio” diventiamo con un colpo di bacchetta magica delle “maledette rompicoglioni”.
Potrei andare avanti così all’infinito.
Certo. Ci sono anche situazioni in cui l’amore ci fa stare molto bene. Ci sono coppie che hanno trovato il bandolo della matassa, il segreto della serenità durevole e perfetto. In cui le persone si “salvano”.
Ma questo “salvataggio” deriva dal percorso. Perché l’amore è un’emozione che si consolida in sentimento ma è anche una relazione tra due persone che mutano nel tempo.
Che cambiano, sbagliano, si arrabbiano, sono tristi, poi incredibilmente felici.
Che si vengono incontro e poi all’improvviso si allontanano.
Che si cercano e danno significato l’uno all’altra. Che si capiscono e poi d’un tratto sembra che non si capiscano più.
Una volta ho intervistato Paul Auster al quale chiesi che cosa significasse per lui il matrimonio.
Mi ha risposto “una lunga conversazione”.
L’ho trovata una definizione molto bella e anche molto rischiosa.
A volte penso che in questo mondo liquido, distanziato, incerto e sempre più mutevole, sentiamo troppa necessità di raccontare ogni nostro stato d’animo, andirivieni emotivo, flusso egoistico di coscienza.
A volte penso che l’assunto di Lady Violet “conosco dei matrimoni perfetti in cui le persone al loro interno non si parlano da anni” (diceva più o meno così) sia uno spunto su cui riflettere.
Si parla troppo, si accetta sempre meno. Si parla non per avere un confronto ma per mettere sul piatto le proprie esigenze e il proprio punto di vista. I propri malesseri, i propri buchi.
Non si tratta di “conversazioni” ma di lunghi monologhi egotici un po’ come in Malcolm e Marie (che continuo a citare per quanto non mi sia piaciuto…). In cui le persone non si ascoltano ma si mettono in mostra. Se qualcosa ci ha insegnato questo film è che non sappiamo più litigare. Ed è forse per questo che le relazioni oggi finiscono in maniera cosi repentina, veloce, senza possibilità di replica: ci si mette uno di fronte all’altro, ognuno nella propria torre d’avorio. Nessuno disposto a fare un vero e proprio passo verso l’altro. Ognuno desideroso di soffrire il meno possibile.
Uno dei libri più belli di Simone De Beauvoir si intitola “Per una morale dell’ambiguità”.
Trovo rivoluzionario e così moderno che una donna negli anni Quaranta associasse due parole che all’apparenza sono in antitesi: ambiguità. Morale… ovvero quel “codice” di regole che ognuno dovrebbe seguire per vivere una vita eticamente corretta, che non significa “integerrima”, ma che segua i valori che per ognuno di noi sono fondamentali (per lei la libertà prima di tutto ma ne parleremo nelle dirette).
Credo che tra quelle due parole stia un po’ il senso di tutto quello che ho scritto fin qui…
Che nell’ambiguità stia il nostro andirivieni. I nostri comportamenti, i nostri sbagli, le nostre contraddizioni e i tradimenti verso noi stessi.
I nostri “la prossima volta col cavolo che rinuncio a questo e quest’altro” e poi ritrovarsi a farlo e a giustificarci allo specchio rendendoci ridicoli persino ai nostri occhi (ma cosa vuoi che sia… lo faccio con piacere).
Le nostre promesse a noi stessi “mai più! Non mi innamorerò mai più!” e poi basta andare a prendere un caffè con una persona che stiamo incontrando per lavoro e mormorarci nella testa “ma sai che invece potrebbe essere…” e ti ritrovi due giorni dopo con i piedi sotto al tavolo a cena (quando si poteva..) a raccontare i tuoi traumi dell’infanzia. E nell’arco di due settimane a calcolare quante volte ti abbia chiamato lui e quante tu (no, a sto giro se vuole chiama lui… e intanto gli mandi un whatsapp).
“Da sola!!! Voglio vivere da sola!!” e poi iniziare a pensare a dove diavolo potrebbe ficcare tutte quelle giacche in casa tua (andrà d’accordo con Marcello?).
Insomma…
Accogliamo la nostra ambiguità.
Il nostro stare bene da soli spaparanzati sul divano a leggere un libro.
Ma anche il desiderio dell’altro e di buttarci verso l’altro. Rischiando di cadere dal divano e rotolarci per terra per un po’.
Accolgo l’aver ritrovato un equilibrio con me stessa, l’aver arredato i miei spazi con cura e amore verso me stessa, con una costanza e una pazienza che mi hanno stupita.
Ma accolgo anche la volontà e la tensione a rompere, di nuovo, queste mie certezze così faticosamente costruite.
Scardiniamo quell’idea di perfezione, di completamento rotondo, di priorità assoluta.
L’amore è una parte bella e importante della nostra vita, ma non l’unica. Se non c’è, pazienza. Ci sono altre cose. Ci sono molti modi per esplorare questo sentimento, non esiste solo la “coppia”.
E soprattutto: smettiamola di pensare che l’amore ci salvi perché, se proprio dobbiamo trovare una definizione, l’amore ci mette a rischio.
Ci fa mostrare il fianco, ci rende più fragili, bisognosi e spaventati.
Ma sarà in quel momento che dovremo ricordarci dei nostri cocci. Di quel noi (quell’io) in cui ci siamo ritrovati e che dobbiamo difendere, è quell’io che ci farà rendere conto se l’amore che stiamo vivendo è un amore rispettoso, positivo, che non fa della tossicità e della dipendenza ossessiva i suoi cardini.
Sforziamoci di vedere l’altro per quello che è (l’epochè di Husserl.. si vede che sto studiando per il master in filosofia). Al di là delle nostre proiezioni, idealizzazioni, aspettative.
L’altro è l’altro. Non è un essere perfetto, non è il nostro salvatore benefico. Non è l’uomo “ideale”.. avete letto cosa combina Armie Hammer???
È un essere umano come noi con i suoi limiti e le sue virtù.
Smettiamola di pensare che l’amore ci debba per forza far soffrire o struggere o stare male.
Se stiamo male alziamo la mano (come su Clubhouse) e cerchiamo un confronto. Se ci troviamo proiettati nella lussuosa dimora in bianco e nero di Malcolm e Marie ad ascoltare monologhi dalla scrittura impeccabile, lasciamo andare. “Leave quietly” (come si lasciano le stanze su questo nuovo social network che se non conoscete tranquilli, verrà il tempo per tutto..)
Non prendete tutto questo come lezioni. In realtà sto pensando ad alta voce. Sto cercando anche io di trovare un senso nel non senso. Di questo sentimento che alla fine è l’argomento di cui parliamo costantemente, cerchiamo costantemente, idealizziamo costantemente e da cui pretendiamo costantemente.
L’unica cosa che forse ho capito è che l’amore più che una risposta sia una domanda. Che parta prima da noi stessi, e arrivi poi all’altro.
Sto bene con questa persona?
Mi fa sentire bene?
Come sto costruendo la “nostra” conversazione?
Come posso fare per renderla migliore?
(Io in tempo ragionavo così: ma perché lui non fa questo? Ma perché mi delude sempre? Ma perché non capisce? Che non è sbagliato di per se, ma un minimo di autoanalisi comportamentale non guasta).
Si usa molto la definizione “persona preferita” in questi tempi di social e condivisioni di foto su Instagram.
Ecco forse potremmo partire da lì. Dal domandarci ogni giorno perché lo sia e cosa stiamo facendo per renderla tale. (e cosa stia facendo lei/lui/*… in questo caso è lecito chiederselo per non cadere nell’eccesso opposto…).
Nelle ambiguità, contraddizioni e paure che genera l’amore.
La vita può diventare così interessante che ci dimentichiamo di avere paura
Scrive Don DeLillo ne Il silenzio.
La paura non porta mai a nulla. Questo forse lo abbiamo capito.