How many years can some people exist
Before they're allowed to be free?Blowin’ in the wind - Bob Dylan
Nella fotografia più importante della mia vita avevo venti in chili in più, le occhiaie, una cuffietta chirurgica, i capelli sudati e gli occhiali sulla fronte.
Me l’ha scattata un anestesista simpatico con cui ho scambiato poche parole, tra cui “mi sento male, penso di svenire”, mentre lui non so cosa mi stesse iniettando per non farmi accartocciare su me stessa mentre mi capitava l’evento più incredibile della mia esistenza: la nascita di mio figlio.
Ogni tanto riguardo questa foto che ho salvato tra gli album del mio iphone sotto il titolo BABY O. e che ho creato quando Orlando era ancora un’idea che nuotava nella mia pancia e che il mio telefono ha deciso di ripropormi mentre uscivo dalla proiezione di A complete unknown, il film di Richard Mangold con Timothèe Chalamet
Sarà la vecchiaia, sarà la psicanalisi junghiana, sarà che altrimenti non ci sarebbero le storie, ma è da un po’ che credo che la sincronicità degli eventi non sia un fatto casuale.
E no, non è stato casuale che il mio telefono mi proponesse proprio questa foto sgangherata e dolcissima, mentre uscivo da un film- bellissimo, ve lo consiglio- che racconta di una star della musica degli anni ’60 che si vestiva come un clochard, che odiava i fotografi, che non faceva nulla per nascondere la sua hybris di ventenne che percepisce del genio dentro di sé.
E anche se il film è un prodotto perfetto- c’è Timothèe Chalamet che è bellissimo e bravissimo, ci sono gli anni ’60 che sono bellissimi e gli attori sono tutti bravissimi, soprattutto Edward Norton che interpreta uno dei mentori di Dylan- racconta un periodo storico in cui la perfezione per come la conosciamo ora- quella fatta di intelligenze artificiali, foto perfette, immagini perfette, scritture perfette e tutte uguali- non c’entrava nulla.
Ho pensato a quanto questa perfezione che vediamo attorno a noi ci inglobi, e ci abbia in qualche modo assuefatto.
A quanto sia bello rileggere i romanzi degli anni ’60- ho appena riletto stralci di A sangue freddo di Capote per un corso..- pieni di descrizioni, di ridondanze di cose che oggi qualsiasi editor ti taglierebbe perché “disturbano l’attenzione del lettore perché defocalizzano la storia”
Ho pensato a quanto la meraviglia invece stia nell’imperfezione. L’arte stia nell’imperfezione. La vera possibilità di rimanere nel tempo, come Dylan, stia nell’imperfezione. Il senso delle cose che leggiamo spesso si celi dietro le strabordii degli scrittori che se ne fregano di essere coerenti con la loro storia.
Di quanto, tra mille foto che ho conservato nel mio computer e nel mio iphone – in alcune sono addirittura ben vestita- l’unica di cui mi importi davvero è la più imperfetta di tutte.
E di quanto, alla fine, ciò che resta sia ciò che ci sfugge: una foto storta, un’immagine che non avremmo scelto ma che ci sceglie. Resta quello che si aggrappa al tempo, come una nota sbagliata che continua a risuonare, un dettaglio che non riusciamo a dimenticare.
Come Dylan che inciampa nei versi, come una storia che si perde per ritrovarsi, anche noi siamo fatti di crepe e di margini. E forse è lì, in quei bordi sgualciti, che la vita respira davvero, fuori dall’idea di perfezione, dentro al caos di ciò che è stato e che continua ad accadere.
Riguardo quella foto e mi sembra di sentirci un ritmo, un’eco di qualcosa che non si può spiegare. Forse la bellezza non è mai stata una questione di forma, ma di ciò che si intravede.
Di quello che resta, nonostante tutto.
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