Care e cari, bentrovate e bentrovati!
Eccomi di nuovo qui! La scorsa settimana sono sparita, ma ho una buona scusa: ero immersa nella scrittura del mio nuovo libro. Vi anticipo solo questo: parla di libri e non vedo l’ora di raccontarvelo meglio… ok come al solito mi spoilero da sola!
Nel frattempo, vi scrivo da un posto speciale, un luogo che è nell’immaginario di tutti quelli che amano la letteratura: Casa Leopardi, a Recanati. Sto lavorando a un progetto su Giacomo Leopardi e ogni giorno mi sorprendo nel riscoprirlo, nell’andare oltre l’immagine che ne abbiamo sempre avuto.
Leopardi: non solo “il poeta con la gobba”
Diciamolo: per molti di noi Leopardi è stato quello triste, pessimista, sfortunato, quello che a scuola ci veniva raccontato come il poeta della gobba e della malinconia. Ma la verità è un’altra. Leopardi era un ragazzo affamato di vita, che trovava la sua libertà nei libri.
Era un genio precoce: a 4 anni scriveva, a 10 anni gli chiedono "Cosa vuoi fare da grande?" e lui risponde “Il santo”, a 12 anni scrive un trattato sull’anima degli animali. Un bambino prodigio, ma anche un ragazzo che voleva tutto dalla vita.
Solo che la vita, quella vera, quella fatta di viaggi, amori e libertà, era difficile per lui viverla (un po’ per la famiglia molto rigida, un po’ per il suo stato di salute, un po’ per gli amori impossibili che inseguiva…).
Così si è costruito un mondo attraverso la lettura. E ha capito una cosa fondamentale: che la felicità non è qualcosa che si può ottenere, ma qualcosa che possiamo immaginare.
Leggete queste sue parole tratte dallo Zibaldone:
«Pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni».
Per lui le illusioni erano l’unica forma possibile di felicità. La realtà è deludente, diceva, ma l’immaginazione ci permette di andare oltre. Un pensiero che, diciamolo, oggi è più attuale che mai. In un mondo in cui tutto deve essere immediato, concreto, misurabile, Leopardi ci ricorda che la felicità non è un prodotto da consumare, ma un’idea, un desiderio, un sogno da costruire ogni giorno.
Provando a sentirci ogni giorno un po’ fanciulli
I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli adulti il nulla nel tutto.
CAMMINANDO SUL COLLE DELL'INFINITO
Girare per Recanati è un po’ come entrare nelle sue poesie e nel suo pensiero. Ho camminato sul Colle dell’Infinito e mi sono chiesta: Ma voi ci avete mai pensato davvero a cosa significa infinito? Non è solo lo spazio senza fine. È quella sensazione che proviamo quando sogniamo, quando immaginiamo qualcosa di più grande di noi. (io nel pensier mi fingo e naufragar m’ è dolce in questo mare…)
Lo stesso Leopardi, che sembrava destinato a una vita di sofferenza, ha trovato il suo infinito nelle parole, nella capacità di trasformare il limite in qualcosa di sconfinato. Ed è questo che mi ha colpito di più: Leopardi non si è mai arreso. Anche quando la vita gli imponeva barriere, lui trovava un modo per andare oltre.
Paolina Leopardi: la sorella dimenticata
Un'altra scoperta meravigliosa è stata Paolina Leopardi, la sorella di Giacomo. Di lei si parla pochissimo, eppure era una donna incredibile: colta, intelligente, appassionata di libri. In un’epoca in cui alle donne era vietato persino sognare una carriera intellettuale, Paolina ha lottato per la sua libertà, ha scritto, ha tradotto, ha viaggiato (di nascosto). Una ribelle ante litteram.
E poi c’è stato un incontro speciale…
Un tè con la Contessa Leopardi
Ho avuto la fortuna di incontrare la Contessa Leopardi, discendente della famiglia, che ancora oggi si occupa di custodire il patrimonio del poeta. È stato incredibile ascoltarla raccontare di Giacomo come se fosse ancora lì, nelle stanze della loro casa, a scrivere, a leggere, a discutere con Monaldo, il padre severo ma visionario che lo ha cresciuto tra migliaia di libri.
Ed è proprio grazie a Monaldo che Giacomo è diventato ciò che è stato. Un uomo rigidissimo, certo, ma con un'idea dell’educazione rivoluzionaria: per lui la cultura era la chiave per tutto.
CONSIGLI DI LETTURA
Dopo aver riletto una buona dose di classici dell’800 e ’900 per il mio libro (spoiler!) ora voglio sbizzarrirmi con le nuove uscite… che sono fortunatamente tantissime!
Sul mio comodino al momento c’è Il giorno dell’ape di Paul Murray
I prossimi saranno: L’anniversario di Andrea Bajani, Malbianco di Mario Desiati e poi un viaggio tra le mie amatissime scrittrici inglessi con Outsiders di Lyndall Gordon.
Tra famiglie disfunzionali e altre catastrofi
Ci sono romanzi che ti fanno ridere e piangere insieme, che ti tengono in ostaggio per 650 pagine e poi ti lasciano lì, devastato, a fissare il soffitto. "Il giorno dell’ape" di Paul Murray è uno di questi.
Si apre con un’adolescente sconvolta da Sylvia Plath—e già qui mi aveva conquistata. Cass, la figlia maggiore della famiglia Barnes, legge La campana di vetro e sente il suo mondo vacillare. Come faccio a non amare un romanzo così?
La famiglia Barnes sembra uscita da un rassicurante romanzo borghese: un padre imprenditore, una madre affascinante e un po’ svanita, due figli brillanti. Poi tutto crolla. Il concessionario di auto di Dickie fallisce e, con lui, si sgretola l’intero microcosmo familiare. Ma invece di unirsi, i Barnes affondano da soli, ognuno chiuso nei propri drammi, mentre il mondo intorno a loro diventa sempre più ostile (alluvioni, recessione, un clima da fine del mondo).
Murray ha una scrittura pazzesca, che oscilla tra tragedia e satira sociale con una naturalezza spiazzante. Sembra un mix tra Jonathan Coe e Franzen, con una spruzzata di flusso di coscienza joyciano. E se vi viene voglia di urlare ai personaggi “Parlatevi, per l’amor del cielo!”, sappiate che siete in ottima compagnia.
Perché il punto è proprio questo: se non impariamo a sostenerci a vicenda, siamo fregati. In fondo, come scrive Murray:
«Ecco una verità dell’universo, forse la verità principale: è impossibile comprendere che di noi all’universo interessa poco e niente”
IL FILM DELLA SETTIMANA: IO SONO ANCORA QUI DI WALTER SALLES
Eunice Paiva: la forza di una donna e di un paese
Ci sono storie che ti travolgono perché parlano di resistenza, di memoria, di tutto quello che non si può (e non si deve) dimenticare. La storia di Eunice Paiva, al centro di Io sono ancora qui di Walter Salles, è una di queste.
Eunice è una donna a cui viene tolto tutto: il marito, la stabilità economica, persino la casa. Ma non la forza di reagire. Rimasta sola con cinque figli, studia, si laurea a 48 anni e diventa un’avvocata che si batte per i diritti delle popolazioni indigene dell’Amazzonia. Ma soprattutto lotta per preservare la memoria di suo marito, scomparso e ucciso durante la dittatura brasiliana, e per ottenere giustizia.
Fernanda Torres, nei panni di Eunice, è straordinaria. Non serve urlare per mostrare il dolore: Torres usa sguardi, silenzi, piccoli gesti che pesano come macigni. La scena in cui Eunice riceve, dopo 25 anni, il certificato di morte del marito è straziante nella sua semplicità. Non ci sono parole, solo il peso insostenibile del tempo.
Fernanda Torres: un’interpretazione che ha già fatto storia
Se il nome di Fernanda Torres vi suona nuovo, segnatevelo: è la seconda attrice brasiliana candidata agli Oscar dopo sua madre, Fernanda Montenegro, la leggendaria protagonista di Central do Brasil (sempre di Salles). Ma Torres è già un’icona in patria. Ha fatto ridere milioni di brasiliani con sitcom di culto, è diventata un volto amato anche online (sì, è piena di meme) e ora si prende il mondo con una performance che gioca tutta sulla sottrazione.
Torres ha detto una volta di sentirsi "la Pikachu brasiliana", ma dopo questa prova potrebbe diventare il nuovo simbolo di un cinema che parla di storia, dolore e riscatto senza retorica.
La casa: il simbolo di un sogno infranto
La casa dei Paiva, all’inizio, è un luogo pieno di vita, di idee, di cultura. Ma quando arrivano i militari, tutto cambia: le finestre si chiudono, la luce sparisce, il silenzio invade ogni stanza. È il riflesso perfetto di ciò che succede al Brasile stesso. Quando, anni dopo, la casa diventa un ristorante, è chiaro che non è solo uno spazio a svanire, ma anche un’intera visione del futuro.
Un film che parla a tutti noi
Diviso tra 1971, 1996 e 2014, il film attraversa decenni di storia, mostrando come i traumi della dittatura non spariscono mai davvero. Eunice diventa il simbolo della memoria che resiste, della necessità di non edulcorare il passato. E Salles, con il suo stile preciso e mai retorico, ci ricorda che queste ferite appartengono a tutti.
Se avete appena finito di leggere M e vi sentite ancora immersi nella storia recente e nei suoi fantasmi, guardate questo film. Vi lascerà senza parole.
Come spesso succede…
Ve l’ho detto che credo ormai fermamente nella sincronicità: c’è un filo che lega Leopardi, Il giorno dell’ape di Paul Murray e Io sono ancora qui di Walter Salles. Ed è forse il filo dell’esistenza umana, quel tessuto invisibile fatto di memoria, dolore, speranza e resistenza.
Leopardi, con la sua poetica delle illusioni, ci ha insegnato che la felicità è un desiderio impossibile, ma immaginare, sperare e creare illusioni ci permette di andare avanti. Anche quando la realtà è un deserto, la mente è capace di costruire oasi: un infinito che abita dentro di noi, un modo per dare un senso al vuoto.
Lo stesso accade nella famiglia Barnes, i protagonisti di Il giorno dell’ape. Quando tutto si sgretola, ognuno combatte la propria battaglia in solitudine, senza riuscire a vedere negli altri un’ancora di salvezza. Ma Paul Murray ci ricorda che, senza connessioni e senza un pizzico di speranza condivisa, siamo destinati a naufragare. I Barnes sono la dimostrazione che, anche nelle situazioni più disperate, parlarsi può fare la differenza tra la sopravvivenza e il fallimento.
E poi c’è Eunice Paiva, che in Io sono ancora qui incarna la resistenza: non quella rumorosa, ma quella silenziosa, ostinata, che costruisce pezzo per pezzo un futuro possibile. Dopo aver perso tutto, Eunice sceglie di lottare. Non può cancellare il dolore della dittatura né il vuoto lasciato dal marito scomparso, ma trasforma la memoria in uno strumento per andare avanti, per non arrendersi al nulla.
Memoria, speranza, resistenza. Leopardi, Murray e Salles sembrano dirci che, per quanto la vita possa essere aspra e il mondo indifferente al nostro dolore, possiamo trovare un senso nelle relazioni, nelle illusioni, nella capacità di ricordare e reinventarci. È questo il filo che ci tiene insieme. E, forse, che ci rende umani.
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Un abbraccio e tutti e buona settimana,
Marta