Lo so, detta così sembra il titolo di una tesi improbabile.
Eppure c’è un filo -visibile, se ci si ferma a guardare- che passa tra queste donne, vere o letterarie, e attraversa un tema tanto antico quanto urgente: la maternità non addomesticata. Quella che non consola, che non salva, che non sempre si sacrifica.
In The Last Showgirl, Pamela Anderson interpreta una madre che ha abbandonato la figlia per inseguire il proprio sogno: essere una ballerina da luci al neon, piume e lustrini nei club di Las Vegas. È una donna che, alla fine della sua carriera, si trova faccia a faccia con quella figlia ormai adulta, che ora deve fare i conti con la ferita dell’abbandono e con una domanda scomoda: può esistere una maternità che non passa dal sacrificio totale di sé?
Il film si muove esattamente lì, in quella zona d’ombra dove si incrociano amore e colpa, desiderio e distanza. Mette in scena un’altra faccia della maternità, quella che la cultura raramente mostra: non quella salvifica, ma quella ambiziosa.
Quella che sceglie sé stessa.
"Non ci hanno insegnato a essere madri e ambiziose", scrive Antonella Lattanzi in Cose che non si raccontano. E infatti la madre ambiziosa, nella nostra narrazione culturale, è spesso una figura mostruosa o colpevole.
Pensiamo al mito di Demetra e Kore, madre e figlia separate con violenza. Ma Kore, nel mondo dei morti, cambia. Non è più solo la figlia da salvare, ma diventa Persefone, la regina. Anche lì, dietro la perdita, c’è una trasformazione. Un’individuazione.
Le figlie non sono solo figlie: sono donne che cercano sé stesse. E a volte, per farlo, devono rompere con l’immagine della madre. O viceversa.
Virginia Woolf in Gita al faro lo sapeva bene. La signora Ramsay, ritratta con affetto e inquietudine, è la madre che esiste solo per gli altri. Lily Briscoe, l’artista, cerca un altro modo. E forse, proprio nella pittura, in quell’atto creativo che la madre non si è mai concessa, Lily trova una nuova forma di eredità.
Non l’eredità dei gesti, ma quella del desiderio.
E poi c’è Sylvia Plath, che negli anni ’60 scriveva di voler essere una "mamma vagabonda", ma si sentiva bloccata, come un ramo incastrato in un albero. Essere madre o essere scrittrice? Nessuno le aveva detto che forse, un giorno, avrebbe potuto provarci a essere entrambe. O almeno provarci senza sentirsi in colpa.
E infine, c’è Elena Ferrante, che in ogni sua storia ci mette davanti a donne che si trovano a un bivio: inseguire sé stesse, o restare impigliate nel ruolo della madre perfetta. Lila, Lenù, Leda… tutte attraversano un conflitto tra libertà e accudimento, tra sé e l’altra, tra figlia e madre.
Diventare madre, in Ferrante, non è mai solo un evento biologico. È un terremoto identitario.
E allora, torniamo a Pamela Anderson. O meglio, a Shelly, il personaggio che interpreta. Una donna che, forse goffamente, forse con egoismo, ha comunque mostrato alla figlia che un’altra via esiste. Che c’è una possibilità -contraddittoria, imperfetta, ma reale- di uscire da quel destino di rinuncia e autonegazione che ci hanno venduto come naturale.
Shelly ha scelto la sua libertà. E ora, la figlia, che è entrata nell’età in cui le madri iniziano finalmente a diventare leggibili, la guarda, la ascolta, e forse -in un atto umanissimo, profondo, adulto- sceglie di comprenderla.
In un passaggio di Nato di donna, Adrienne Rich scrive:
“Come figlie, abbiamo bisogno di madri che vogliano la loro e la nostra libertà.”
Forse è questo che The Last Showgirl ci suggerisce.
Che è possibile essere madri e volere di più. Che possiamo anche sbagliare, ma almeno non restare intrappolate.
Che possiamo diventare donne che le nostre figlie non devono perdonare, ma comprendere. E magari persino, in un lontano futuro, ringraziare.