E come Errore
Ciao a tutti e benvenuti a questa nuova newsletter,
[da questa newsletter adotterò la schwa.. detta anche sceva, che è il corrispettivo del “neutro”. Quindi non indicherò più un maschile e un femminile nel mio discorso. Mi sento per certi versi liberata da un’incombenza – metto questa parola al maschile o al femminile?- anche il greco antico aveva il neutro… perché non usarlo?]
Partiamo dalle origini.
Qui cerco di parlarvi di alcune cose.
In questo momento lo sto cercando di ricreare una forma di alfabeto. Letterario, emotivo, di intuizioni.
Sono miei pensieri che spero si uniscano ai vostri.
In molti mi scrivete “sei la mia seconda psicologa”. Io non sono una psicologa, ve lo ribadisco sempre. Non mi butto addosso un ruolo e capacità e formazione che non ho. Cerco però di dar voce a delle emozioni e a dei pensieri, che, nel mio caso, passano di solito attraverso i libri e la comprensione delle cose.
In questo momento Marcy sta lottando con le mie ciabatte. Credo mi stia mettendo alla prova in uno stress test “riuscirai a scrivere con tutto questo casino?”
Come mentre ero in diretta con il bravissimo Francesco Costa (se volete recuperare la live la trovate a questo link) durante la quale scorrazzava davanti a me con in bocca un ippopotamo di pelusche come se fosse al cospetto di un drago gigante (lui è il mio Jon Snow peloso... ).
Quando scrivo mi guarda con disapprovazione… “Mamma, potremmo fare un sacco di cose divertenti. Per esempio rotolarci sul divano, giocare a “coniglietto” (è il suo gioco preferito, insieme alle mie ciabatte e al cordino del mio zaino che sa perfettamente che non può morsicare... controlla se non lo sto guardando per farlo. Appena mi giro sfodera lo sguardo “gattino di Shrek” come a dire – Mamma… io passavo di qua per caso… di certo non volevo mordicchiare la corda del tuo zaino preferito).
Potreste dire: metti via lo zaino, toglilo da terra. Avete ragione. Ma una parte di me è convinta che l’educazione dei cani passi anche da scelte consapevoli. Mordicchio o non mordicchio le stringhe delle Dr Martens? La faccio o non la faccio la cacca vicino al divano?
Lo so. I cani forse non hanno attitudine filosofica. Ma lasciatemi pensare che Marcy sì.
La parola della settimana
ERRORE
Sono settimane che mi risuona nella testa la parola “errore”.
Cosa sono gli errori? A cosa ci porta a sbagliare?
Mettiamolo subito in chiaro: ho sbagliato un sacco di cose nella vita. Come tutti immagino.
Ho commesso errori nelle relazioni, ho commesso errori sul lavoro, ho sbagliato nei confronti di me stessa e degli altri.
E di solito mi sono dannata.
Come quando prendevo 7 anziché 8 ½ nella versione di greco al liceo.
Secchiona! Sì. Quella è stata la scaturigine di tutte le mie pene.
Alla newsletter della settimana scorsa sulla vulnerabilità mi avete scritto in più di una riconoscendovi nella cosiddetta “sindrome dell’impostore”, che identifica l’ atteggiamento (che spesso per ragioni culturali e sociali è molto più femminile che maschile) costante di non sentirsi all’altezza. Non sentirsi adeguat* nel ricoprire un determinato ruolo… ma abbastanza in grado, mai abbastanza preparat*.
Non a caso però parlo di donne perché questa sindrome (che ormai è entrata nel linguaggio comune, non più come disturbo della personalità) è stata studiata da due psicologhe donne: Pauline Clance e Suzanne Imes che negli anni settanta concentrarono le ricerche su donne di successo.
Bene le donne di successo si sentivano delle “impostore” nel rivestire quel ruolo.
La sindrome dell’impostore è correlata all’effetto Dunning- Kruger (ne parla anche Annamaria Testa nel suo Il coltellino svizzero di cui vi ho già abbondantemente parlato, che se volete trovate qui).
Ovvero:
una distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità autovalutandosi esperti a torto, mentre al contrario persone davvero competenti hanno la tendenza a sottostimare la propria reale competenza. Come corollario di questa teoria, spesso gli incompetenti si dimostrano estremamente supponenti.
Per prendere un esempio di persona affetta da questa sindrome possiamo parlare di Brant della quarta stagione di The Good Place (che è una delle mie serie preferite, la trovate su netflix. E’ una serie comedy – dai dialoghi super intelligenti e divertenti- che però si confronta con argomenti etici… ovvero: gli esseri umani sono portati naturalmente al bene o al male? Possono cambiare e migliorarsi? E lo fa parlando di un ipotetico aldilà zuccheroso e colorato in cui la nostra protagonista Eleonor finisce morendo prematuramente. Viene accolta da un “angelo” che si chiama Michael che è interpretato da un meraviglioso Ted Danson ed è un gioco che va avanti per quattro stagioni di ribaltamento di prospettive e dubbi esistenziali. Non posso dirvi di più altrimenti spoilero.. ma se non l’avete vista fatevi un regalo per questo weekend).
Bene. Brant è un uomo di “successo” sulla Terra. Dirigente aziendale misogino e razzista che si sente un superuomo infallibile. Si sente il migliore senza mai mettersi in dubbio. Sente di essere una “brava persona” nonostante non lo sia per niente. Quante volte sentiamo questa autodefinizione “ma io sono una brava persona!”, soprattutto da uomini di potere.
Riprendendo le parole di Darwin, citate anche da Dunning e Kruger
«L'ignoranza genera fiducia più spesso della conoscenza».
O Bertrand Russell (consiglio anche a voi di scaricare sul kindle del cellulare il suo Elogio dell’ozio e tenerlo in tasca per i momenti bui)
«Una delle cose più dolorose del nostro tempo è che coloro che hanno certezze sono stupidi, mentre quelli con immaginazione e comprensione sono pieni di dubbi e di indecisioni»
Perché sono partita da qui per parlare degli errori? Perché l’errore deriva anche dall’approccio che ognuno di noi ha nei confronti di esso.
C’è chi si danna per molto poco e chi non si danna per nulla.
Il giusto equilibrio come dicevano gli antichi sta nel mezzo.
Molte volte penso che la mia passione per le storie nasca da una necessità di riconoscimento nella pietà.
Mi spiego meglio.
La letteratura è il territorio degli errori. I romanzi più appassionanti, più emotivamente coinvolgenti… sono romanzi che ci mettono di fronte all’infinito susseguirsi di errori dei suoi protagonisti.
Uno dei romanzi che più mi hanno cambiato la vita è stato Libertà di Jonathan Franzen.
Avevo 26 anni, lavoravo da qualche anno per una rete privata televisiva. Mi occupavo già di libri e cinema e giravo come una trottola per l’Italia a fare interviste. Lavoravo come una pazza, mi divertivo, imparavo, mi mettevo alla prova.
Mi sentivo una ragazza divisa.
Divisa tra desiderio di scoperta e ambizione da un parte, dall’altra un fidanzato brianzolo e quelle che pensavo fossero le aspirazioni dei miei genitori su di me.
Sposati, sii buona, comprati una casa in Brianza. Fai dei bambini, sorridi.
Io a 26 non sorridevo, ridevo nervosamente. Ero incazzata con la vita, me la volevo mangiare e prendere tutta. Volevo essere libera anche se non capivo bene cosa significasse.
Ero consapevole che le etichette non mi avrebbero mai soddisfatta. Ma la mia idea di ribellione sfumava nell’ansia di “non compiacere”: la mia famiglia, il contesto sociale, quella redazione dove in fondo, nonostante ci fossero molte ragazze e donne (alcune delle quali sono diventate tra le giornaliste più stimate della nostra generazione), l’essere femmina veniva visto come un deterrente all’idea di carriera.
Massì divertiti finché sei giovane. Tanto il fine della tua esistenza sarà un altro. Le priorità cambiano.
Non lo so se fosse una mia percezione o fosse davvero così. Probabilmente, come dice Virginia Woolf, quando ero giovane mi preoccupavo di troppe cose prima che accadessero.
“Come faccio a far combaciare la vita privata con quella lavorativa? Come faccio a far contenti tutti – probabilmente tranne me-? Come si fa a fare tutto?”
Domande che mi assillavano quando non c’era alcuna ragione per cui me le ponessi. Ero giovanissima, facevo un bel lavoro, non ero innamorata del ragazzo con cui ero fidanzata.
Questa era la realtà. Nella mia testa un caos forgiato dal senso di colpa. Perché non amo chi dovrei amare? Perché non riesco a stare tranquilla? Perché non mi accontento mai?
Ecco. È stato in quel momento che ho letto “Libertà” che non a caso ha tra i suoi capitoli più belli uno dal titolo “Sono stati commessi degli errori”.
È il capitolo che racconta l’autobiografia (chiesta dal suo psicoterapeuta) della protagonista Patty Berglund.
Moglie ammirata, facente parte di “quella specie di progressisti con gravi problemi di coscienza che dovevano perdonare tutti per farsi perdonare la propria fortuna; che non avevano il coraggio dei propri privilegi”.
Non so se avete letto il romanzo, la storia è quella di questa coppia praticamente perfetta con famiglia praticamente perfetta in cui qualcosa va storto (inizia così il racconto): Walter, il marito, fervente ecologista, ha commesso qualcosa che non doveva. E come succede spesso, a parlare sono i vicini. Vicini che vedono questa famiglia da fuori e assolutamente scintillante. Due figli meravigliosi, una madre di famiglia (Patty) esemplare ex campionessa di basket ora votata all’educazione dei pargoli.
Nel secondo capitolo (SONO STATI COMMESSI DEGLI ERRORI) è Patty che racconta. Una Patty che non si sente per niente perfetta. Una Patty affetta da sindrome dell’impostore e carenza di autostima (sul tema… vi consiglio Autostima di Gloria Steinem che forse trovate usato qua è là). Una carenza che è conseguenza – come spesso accade- dei rapporti con i genitori, in particolare la madre e le sorelle.
Patty è una donna che si sente fallita in tutto: università portata a termine al di sotto delle aspettative. Matrimonio con il migliore amico dell’uomo che lei in realtà amava, ma che non dava sicurezze.
Una donna che si sente affogata dagli errori da cui non riesce ad uscire. Errori che continuerà a ripetere nel corso del romanzo, anche quando il punto di vista cambia e diventa quello del figlio.
In una ricerca costante della “libertà”.
Ma che diamine è la libertà?
Libertà l’ho letto a 26 anni e mi ha cambiato la vita perché dalle vite di Patty e Walter e Joey e tutti gli altri non riuscivo più ad uscirne. Vivevo con loro i tentativi e i fallimenti. Cercavo di capire attraverso loro il senso di questa libertà che tanto desideravo per me ma che non riuscivo ad afferrare.
Poi sono arrivata all’ultimo capitolo in cui forse Franzen (di cui aspetto con desiderio profondo il suo nuovo romanzo ci offre una chiave. Non una soluzione, ma una chiave.
Alla fine… Patty e Walter hanno il coraggio di immergersi nei propri errori. Guardarsi in faccia e allo specchio e riconoscerli.
Sono stati commessi degli errori.
Guardare dentro se stessi e rilevare gli sbagli è il gesto di libertà più assoluto che possono compiere Patty e Walter e forse anche ognuno di noi.
A 26 anni ho letto Libertà e mi sono perdonata.
Ho letto Libertà e ho capito che non volevo fare la fine di Patty.
Volevo scegliere di non essere scelta.
Accettare gli errori e andare avanti.
Ho lasciato il mio fidanzato dell'Università (che è uno degli uomini migliori che abbia mai conosciuto, ma non era il mio destino) e mi sono buttata in una vita "erratica". Accettando il viaggio e mutamento costante, ricercando ogni volta di "scegliere". Sbagliando infinite volte, a ogni volta cercando di ripartire più consapevole.
I grandi romanzi stimolano la compassione- verso gli altri e verso noi stessi- passando attraverso il racconto dell’errore.
Come fa Rachel Cusk in Resoconto, romanzo che ho letto con ritardo (ne ho parlato in questa IGTV) che racconta la storia di Faye (che ha una biografia che ha molto a che fare con la scrittrice, ma forse questo non è importante) una scrittrice che sale su un aereo per andare in Grecia a tenere un corso di scrittura.
Nel romanzo non accade nulla e accade tutto, come ha detto il New York Times.
Le persone che incontra si confessano con lei. Raccontano le loro vite, le loro illusioni e disillusioni. I loro “errori”
“le cose, naturalmente, non erano andate come lui aveva immaginato. Il dosso non aveva solo scombussolato il suo matrimonio, l’aveva costretto a svoltare su un’altra strada , rivelatasi una deviazione lunga e senza meta, una strada sulla quale in realtà non era accaduto niente di importante”.
Ognuno ha in qualche modo fallito: divorzi, matrimoni finiti, difficili rapporti con i figli, perdita della vocazione e dell’intenzione.
Un racconto senza lieto fine, senza morale e senza giudizio. Se non quello della condivisione senza filtro delle nostre molteplici inconsistenze. Vite comuni che oscillano tra illusioni e inevitabilità della fine di esse. In cui una ragione non c’è. Anzi, più si cerca di comprendere, più si usa la ragione, più la conoscenza porta al cinismo.
Vite che si contraddicono e tradiscono, che cambiano percorso costantemente, non seguono traiettorie lineari e definite. Vite da ascoltare e perdonare per perdonare noi stessi.
Ma c’è un passaggio ulteriore che voglio affrontare con voi.
C’è forse una possibilità di redenzione dal cinismo: le emozioni.
E qui arriva il significato “nuovo” che vorrei dare del termine “errore” che deriva dal latino “errare” e che ha molto a che fare con il “viaggio”.
Viviamo (o vivevamo o non lo so più) in un mondo dove la performance era più importante della sostanza. L’apparenza (come ci racconta bene Silvia Avallone in Un’amicizia) più dell’autenticità.
Salvare una foto su google di una torta perfetta e postarla su Instagram “come se l’avessi fatta io”. (che come sapete mai avrei potuto…)
In cui mostrare gli errori era sacrilegio. In cui raccontare le nostre vulnerabilità era ammissione di debolezza.
Bisogna avere successo. Mostrare “la Chiara che vorrei essere” (sto citando Chiara Ferragni, che in realtà stimo, ma questa sua immagine di perfezione e successo, per quanto estremamente tenera e simpatica per certi versi, possa generare forti sensi di inadeguatezza… lei come tante altre).
Il romanzo di Rachel Cusk mi ha ricordato due filosofe che ammiro molto: Iris Murdoch (e già sapete) e Martha Nussbaum.
Entrambe pur essendo filosofe hanno una forte connessione con la letteratura. Non tutti i filosofi la hanno. Per loro la letteratura è una via conoscenza. Un modo per riconoscersi e conoscere. Una vita per le emozioni.
Per entrambe il fine ultimo delle cose è l’amore.
Iris Murdoch parla di “ascolto amoroso” che è quella forma di ascolto e connessione che proviamo quando ci innamoriamo. Quando ci innamoriamo conosciamo e riconosciamo l’altro. Lo ascoltiamo davvero e se applichiamo lo sforzo di andare oltre l’apparenza, possiamo anche conoscerlo.
Se applicassimo questo tipo di ascolto nei confronti degli altri e di noi stessi, anche nell’accoglimento dell’errore, il mondo sarebbe certamente un posto migliore. Che è quello che Faye (la protagonista di Resoconto) per certi versi fa. Ed è un esercizio che potremmo prendere ad esempio: ascoltare gli altri senza inabissarli dei nostri punti di vista e consigli (che di solito partono così: te lo dico per esperienza! A me per esempio è successo così… e parliamo di noi e non più dell’altro).
Martha Nussbaum (su cui torneremo) fonda la sua filosofia attorno all’idea che le emozioni sono una via di conoscenza, un modo di costruire una propria etica.
Quest’educazione alle emozioni Nussbaum costruisce la sua teoria sull’origine della moralità: invece che costruirsi come sistema di norme che limitino le emozioni, la moralità di un individuo crescerebbe sulle emozioni stesse, trarrebbe giovamento da una sana coltivazione dell’assetto emotivo e non mirerebbe affatto a sopprimerlo attraverso imposizioni sociali.
Stabilito che le emozioni guidano l’agire umano e favoriscono azioni benevole come anche azioni distruttive – tramite paura, vergogna, rabbia – risulta evidente la rilevanza delle emozioni per l’etica dell’individuo. Quanto sono rilevanti le emozioni nel guidare la buona azione dell’adulto? Le emozioni possono offrire un contributo positivo alle decisioni etiche individuali e pubbliche?
Martha Nussbaum pensa di sì: le emozioni alimentano la moralità e dunque una teoria etica deve fondarsi sull’educazione emotiva.”
Impariamo attraverso le nostre emozioni. È attraverso le emozioni che troviamo la forza di andare oltre.
Sono le emozioni che derivano dai nostri “sbagli” a portarci a correggere il tiro. A definire “i valori a cui credere” (come volevano fare i giovani intellettuali di Bloombsury… tra cui Virginia: liberarsi dei dettami sociali e religiosi per definire una propria etica che si basasse sul rispetto delle libertà altrui… )
Senza struggerci perché “abbiamo sbagliato”. Senza quella supponenza nel dire “ma io non sbaglio mai”
Sbagliamo tutti sempre e costantemente e i romanzi ce lo ricordano. Ma “errare” (vagare, provare, tentare) ci porta a conoscere.
Non per non sbagliare più. Non per “avere successo”
Ma come dice Michale in The Good Place….
“Non importa se le persone sono buone o cattive, l’importante è che cerchino ogni giorno di migliorarsi”.
Facciamo come Marcy… proviamo a non mangiare la cordina degli zaini anche se ci rendiamo conto che è sbagliato. Ma se lo abbiamo fatto, pazienza… abbiamo imparato qualcosa di nuovo.