Fausta Cialente
Ciao a tutti,
come state?
Questa newsletter è dedicata interamente a Fausta Cialente. L'autrice di Natalia, il romanzo che ho scelto per la nuova challenge di aprile/maggio.
(se volete acquistare il libro lo potete fare a questo link).
Spero che la sua vita vi incuriosisca e che questo romanzo vi lasci qualcosa... uno stimolo, una riflessione... uno spunto.
I libri ci cambiano la vita, se gli permettiamo di farlo.
Fausta Cialente nasce nel 1898 a Trieste, figlia di un ufficiale di fanteria e una nobildonna triestina. La sua è un'infanzia nomade, fatta di traslochi per seguire la professione paterna e di ricerca di punti di riferimento nella famiglia materna (che racconta nel romanzo che vince il premio Strega nel 1976, Le quattro ragazze Wieselberger).
E' stata una donna silenziosa, una scrittrice atipica, una figura ingiustamente dimenticata.
La sua biografia è ricca di atti di coraggio, di salti nel vuoto, di cambi di prospettiva. Ma è priva forse di quell’aspetto che colpisce il cuore. Nonostante a ben guardare le sue scelte non siano state prive di afflato, c’è un elemento che la rende fredda e forse austera alle orecchie di chi ascolta la sua storia.
L’assenza di passione. Intesa come passione amorosa, sentimentale e romantica.
Fausta Cialente, si sposa presto, nel 1921, con l'agente di cambio Enrico Terni, per fuggire dalla sua famiglia di origine, andare all’estero, in Egitto, emanciparsi, crearsi una vita, studiare, scrivere.
Poi arriva la guerra, la Seconda Guerra Mondiale, la sua vita cambia, lei cambia e Fausta decide di partire. Di tornare a casa. A quasi cinquant’anni negli anni Quaranta, in un momento storico in cui avere quell’età, per una donna, significava essere percepita come già “vecchia”, di certo non era considerato possibile prendere in mano la propria vita e stravolgerla.
Lei lo ha fatto tornando in Italia e ricominciando a scrivere romanzi.
Dico tornare perché già di romanzi ne aveva scritti, ma poi li aveva abbandonati, per dedicarsi ad altro, per diventare altro, nonostante nel suo cuore volesse fare una cosa sola: narrare.
Attività che per frustrazione, scarsa considerazione da parte della critica, forse anche paura di sbagliare e l’aver indirizzato la propria attenzione verso altro, aveva smesso di fare.
Ed è forse in questo andirivieni di passi avanti e indietro, di ricerca di un proprio posto e di una propria definizione, nel desiderio di emergere e mettersi alla prova e di sentirsi impossibilitati a farlo, che io ho ritrovato me stessa.
In una donna così lontana e apparentemente così diversa da me. Una donna che mi ha conquistata nel suo svelamento nel tempo. Siamo così desiderosi e così in attesa dei colpi di fulmine che non diamo più valore alla lentezza dell’affezione. A chi giorno dopo giorno
Fausta ha sempre contato nient’altro che su se stessa e sulle propria capacità. Lontana da salotti, da circoli, da amicizie importanti.
Anche se un’amica l’ha avuta, un’amica di penna diremmo oggi, che per lungo tempo è stata il suo contraltare e anche il suo sfogatoio, per usare una definizione contemporanea e forse inappropriata che però mi rende Fausta simpatica, nel suo sentirsi scissa tra l’ambizione e il senso di inadeguatezza.
La sua voglia di essere letta e la delusione per non sentirsi accettata.
A questa amica chiedeva consigli per portare avanti il suo lavoro di scrittrice. Con lei si sfogava quando lo scrivere diventava un percorso ad ostacoli: i rifiuti, il menefreghismo, la non comprensione da parte degli altri. Quando si sentiva schiacciata dal non essere capita.
Questa donna era Sibilla Aleramo, una delle autrici che per prime, in Italia, ha voluto raccontare il senso dell’essere donna e la sua difficoltà.
Che per lungo tempo è stata confidente, amica e faro lavorativo per Fausta.
Ma andiamo per ordine.
E partiamo dal silenzio.
Il silenzio che si è creato su Fausta Cialente è un silenzio di Fausta Cialente.
È una sua volontà, un suo desiderio.
Nel corso della sua vita e della sua carriera sono pochissime le interviste che ha rilasciato. Esigui i materiali d’archivio che si ritrovano su di lei.
“Raccontarmi non mi interessa affatto, non mi diverte e quasi sempre mi dispiace” dice nel 1952 in un’intervista a L’unità.
Fausta nella sua vita nomade e itinerante non ha mai dato troppo peso ai suoi documenti. Diari, materiali preparatori per i romanzi, non ha mai conservato un granché e questa assenza di cura ha portato alla perdita di molto materiale che ci permetterebbe di capirla, entrarci in contatto, analizzarla.
Quello che ci rimane sono i suoi libri. I suoi personaggi, le ambientazioni. È lì che Fausta ha buttato pezzi di sé. Come un puzzle da ricomporre. Un enigma da risolvere.
Ha scritto in totale sei romanzi. Natalia (1930). Cortile a Cleopatra (1936 prima edizione- 1953 seconda edizione). Ballata Levantina (1961). Un inverno freddissimo (1966). Il vento sulla sabbia (1972). Le quattro ragazze Wieselberger (1976).
Quando mi viene rivolta la domanda: come sono diventata scrittrice – ho immediatamente l'impulso di correggere il termine: non scrittrice, ma narratrice. Mi sembra, difatti, che scrittore sia colui che soprattutto si preoccupa dello stile e
servendosi di uno spunto da nulla fa venir fuori una pagina bella, pulita, armoniosa, equilibratissima. Io non sono mai stata questo. Il mio problema è stato sempre: far vivere i personaggi che mi urgevano dentro. […] Si può diventare scrittori occasionalmente, ed essere anche ottimi scrittori, se le circostanze impongono di
dover raccontare qualcosa di molto particolare, un'avventura, un fatto, un fatto d'epoca, storico o meno; ma la tendenza del narrare, d'inventare personaggi è altra
cosa, e non può essere che innata.
Fausta era una scrittrice (narratrice) innata e autodidatta. Quella “tendenza di narrare” la accompagna tutta la vita. La insegue, persegue, ad un certo punto la rinnega e poi la ritrova.
Sin da quando era una bambina che si rinchiudeva in una soffitta per raccontare le sue storie, che più che ai temi e agli esercizi scolastici deve la sua capacità di narrare ad un luogo angusto e pauroso. Il luogo della concentrazione e del desiderio.
Ma tanto ne aveva la soffitta, che in circostanze simili non manca mai; e lì mi rinchiudevo a scrivere le mie storie, fra il sussurro dei tarli e il rumore della pioggia sui tegoli. vergognandomi moltissimo, col tremore di essere scoperta. Quei primi personaggi sono nati dal batticuore e li seppellivo, tra un capitolo e l'altro, sotto un mucchio di vecchi tappeti o in fondo a una cassa.
Le soffitte rimangono per Fausta un luogo d’eccellenza. In Natalia, che è la sua prima opera tanto agognata quanto dal destino sfortunato, la sua protagonista si rifugia in una soffitta a scrivere ed è solo lì che si sente a suo agio con se stessa.
In Un inverno freddissimo Camilla e la sua numerosa famiglia abitano una soffitta sgangherata in una Milano gelida e vuota dopo La Seconda Guerra Mondiale.
La soffitta diventa il luogo della scoperta. La soffitta, uno spazio chiuso, racchiuso diventa il nido del proprio daimon.
Ed è in questo daimon che si ritrova la sua più grande passione e il motivo per cui ho scelto di raccontarvela.
Una passione che non è rivolta verso "l'amore romantico" ma verso qualcosa di ancora più intimo, ideale, universale: la scrittura e la forza della narrazione.
Natalia è un romanzo inusuale, che mescola realtà e sogno e che racconta una ragazza che desidera una vita diversa, un amore diverso.
E' il primo romanzo italiano in cui viene raccontata una passione omosessuale tra due donne (e per questo censurato dal fascismo).
Ne parleremo nel corso di dirette, altre newsletter e podcast.
Ma per ora quello che mi preme dirvi è che Fausta Cialente è stata una donna che ha cercato una forma di rivoluzione silenziosa.
Che passasse dalle cose che scriveva più che dai proclami.
Che ha esercitato in ogni cosa che ha fatto, scritto, detto.
Per alcuni anni ha collaborato come responsabile dei racconti in un importante magazine femminista che si chiama Noi donne (esiste ancora in versione online).
Il suo obiettivo era: cambiare i finali.
Fare quello che Louisa Mat Alcott in un libro che lei ha tanto amato e anche tradotto (Piccole Donne) non aveva potuto fare: eliminare il lieto fine del matrimonio.
In pratica: lei leggeva i racconti che le mandavano le scrittrici e modificava l'happy ending. Mantenendolo tale ma "in solitudine". Non per forza all'altare.
Era convinta che cambiando la narrazione, raccontando di emancipazione, di ragazze che trovano una propria felicità da sole, seguendo la propria vocazione, avrebbe modificato le menti e le aspirazioni.
Erano gli anni '50.
Non solo per questo la amo.
Ma forse per questo dettaglio soprattutto
Buona lettura a tutti
Ci vediamo qui e su Instagram!
Un abbraccio,
Marta