Ho visto Adolescence, la serie britannica di cui tutti parlano. Sapevo che mi avrebbe scossa, ma il risultato a superato le aspettative: ho passato la notte insonne.
Immagino l’abbiate vista anche voi, ma la riassumo brevemente per chi non ha ancora avuto il coraggio di affrontarla.
La storia è quella -fittizia ma ispirata ad una serie di eventi di cronaca- di Jamie, un ragazzino di 13 anni che una mattina viene prelevato dal suo letto con un’accusa di omicidio ai danni di una sua compagna di scuola.
Da qui si apre una spirale che abbraccia diversi temi che vanno dalla responsabilità dei genitori, la mascolinità tossica interiorizzata, i rischi del web (tra manosfera e il fenomeno incel), il racconto di una generazione di adolescenti fragili, l’imprevedibilità della violenza, lo shock di una comunità incredula, insegnanti allo sbando che non sanno come rapportarsi davvero con giovani complicati.
Dal punto di vista tecnico, la serie ideata da Jack Thorne e Stephen Graham (che è anche l’attore che interpreta il padre, che viene da This is England) e diretta da Philip Barantini colpisce perchè interamente girata in piano sequenza. Che cosa vuol dire? Che non ci sono tagli, è come stare a teatro, ma con un approccio documentaristico che porta lo spettatore a immergersi completamente nelle vicende.
In questo articolo viene raccontato molto bene il making of che ha richiesto uno sforzo incredibile da parte di tutti -la regia, con camere che non stanno mai ferme per seguire le narrazioni e cambiare il punto di vista da un personaggio all’altro, la recitazione che take dopo take doveva annullare gli errori, la sceneggiatura mobile che si modificava a seconda del girato-
È molto interessante come è stato girato il finale della seconda puntata che plana da un inseguimento (è il detective che insegue l’amico di Jamie) ad un parcheggio, attraversando finestre e atterrando sul luogo in cui è morta la vittima ricoperto di fiori.
Altra cosa tecnica interessante è il mutamento di genere: la serie si apre come un murder mistery dall’approccio true crime -un po’ come “si usa” fare- ma già dalla prima puntata capiamo che quello che stiamo vedendo è diverso: sappiamo già chi è l’assassino, anche se forse non vogliamo accettarlo. Il cuore del racconto non è il disvelamento di un crimine, ma entrare nel profondo sugli effetti che quel crimine ha sulla comunità, aprendo delle domande sulle ragioni.
C’è poi anche tutto il tema che ho accennato prima della manosfera, degli incel e di fenomeni preoccupanti che si muovono sul web. Vi rimando a questo articolo che lo spiega molto bene.
Vi riporto un estratto:
La cultura incel è fiorita in questi anni in forum, social e siti più o meno clandestini, con toni sempre più misantropi, aggressivi e violenti, coinvolgendo la lotta al femminismo, l'esaltazione della violenza sessuale pur di ottenere quello che spetta all'uomo (la soddisfazione sessuale, dunque) ed estremismi di vario tipo. A volte alcuni crimini eclatanti, come la strage di sei persone condotta da Elliot Rodger nel 2014 in California, vengono collegati a questo contesto ideologico.
La cosa che mi ha colpita di Adolescence è che racconta e non giudica. Le vittime sono anche carnefici, i carnefici sono vittime.
Jamie è l’assassino, ma non viene bollato come mostro, né come ragazzo fragile vittima di bullismo. È forse l’uno e l’altro, come Katie, la vittima, che però è anche la bulla che commenta con criptiche emoticon le foto di instagram del ragazzo.
Nessuno è buono, nessuno è cattivo, come nella vita. Il detective Luke Bascombe è un padre che si rende conto delle sue assenze e limiti (e forse ha l’occasione di rimediare?), i genitori di Jamie non sono una famiglia tossica e violenza. Sono una famiglia normale.
È questa forse la cosa che colpisce più di tutti. Una famiglia normale, a modo suo amorevole. È vero, il padre è un uomo – anche lui- vittima di una certa cultura patriarcale: non sa esprimere i suoi sentimenti, non ha saputo rapportarsi forse al figlio nella maniera più giusta e affettuosa, comprendendo i suoi limiti, valorizzando la sua unicità. Ma è un brav’uomo, che cerca di fare del suo meglio, seppure con scoppi di rabbia (tipicamente “maschili” e spesso normalizzati) che potrebbero aver influito nella formazione di Jamie.
Lo dicono gli stessi genitori, nell’ultima puntata, quella che mi ha fatta stramazzare al suolo di lacrime.
Due genitori che si domandano che responsabilità hanno avuto rispetto a tutto quello che è successo.
“Lo abbiamo fatto noi” ripetono più volte.
E la domanda che arriva potente nella testa di ogni genitore, zio, insegnante, chiunque abbia a che fare con degli adolescenti è: che responsabilità abbiamo nei confronti di queste nuove generazioni, così fragili, così misteriose
Che l’adolescenza sia un periodo della vita terribile, di grande confusione, di enorme trasformazione non è di certo una novità. Ma di certo tra genitori che oggi hanno circa cinquant’anni- come i genitori della serie- e gli adolescenti c’è una frattura enorme, che forse non siamo in grado nemmeno di ammettere.
Sono genitori (e mi ci metto anche io che di anni ne ho 40 e la mia adolescenza è stata negli anni ’90) nati in un’era analogica, che non hanno idea di cosa possa significare crescere e formarsi quando non solo devi scontrarti con i tuoi compagni di scuola, ma anche con l’oscuro mondo del web. Dove foto intime diventano di dominio pubblico e messaggi bullizzanti vengono letti da tutti.
Mi ha fatta molto pensare, riflettere, mi ha scioccata, mi ha buttata addosso una responsabilità tremenda -io mamma di maschio che ora ha 3 anni ma chissà che accadrà tra dieci-
Inizi a domandarti: come faccio a proteggerlo? Quali scuole dovrò scegliere, quali contesti sociali?
E come farò a controllare quello che non si può controllare (pensavamo che nella sua camera fosse al sicuro dicono i genitori di Jamie…)
E dopo aver letto Il giorno dell’ape- anche lì c’è una buona dose di disagio adolescenziale- ho ufficialmente paura.
Una cosa che ho apprezzato molto della serie è che evita di colpevolizzare i genitori, quello lo fanno già da soli. Quando sento dire che siamo la peggiore generazioni di adulti, che siamo dei genitori che fanno schifo… boh non so. Siamo sicuri che erano meglio le cinghiate (come il padre del papà di Jamie?). Siamo una generazione di genitori che provano a trovare una forma diversa a questo compito complicatissimo, per cui non ci sono istruzioni.
I genitori della serie hanno “fatto” – come dicono loro- Jamie, ma anche Lisa, la figlia, una ragazza che colpisce per la sua maturità, per la sua capacità di prendersi sulle spalle persino i suoi genitori, nonostante per lei non sia facile continuare a vivere in un contesto in cui ormai è bollata come “la sorella dell’assassino”.
Se c’è una speranza, è lei. Se c’è una speranza è nei padri che abbandonano una visione machista e proattiva dell’essere “uomo”.
Se c’è una speranza- e lo dice Adolescence e pure Il giorno dell’ape che sono due racconti non carichi di speranza, ma in cui la speranza si intravede- sta nell’ascolto, nella presenza, nel provare ad andare oltre i propri pregiudizi.
Non è facile per niente.
Però racconti come questo, in grado di entrare con così tanta potenza nella contemporaneità e sviscerarla, ci servono.
Per lo meno a scuoterci.