Il lavoro ci rende felici?
Insomma, se uno è costretto per nascita e malasorte a lavorare, meglio che lavori di continuo finché non muore, e se ne stia fermo sul posto di lavoro. Io non capisco tanta gente che sgobba per farsi la casa bella nella città dove lavora, e quando se l’è fatta sgobba ancora per comprarsi l’automobile e andare via dalla casa bella. Io poi l’automobile non l’avrò mai e nemmeno la casa bella; debbo contentarmi di lavorare per restare come sono, e lavorare sempre di più, anzi, perché il continuo aumento dei prezzi, per restare come sono occorre un guadagno ogni anno maggiore.
L. Bianciardi “La vita agra”
Care e cari bentrovati
Questa NL fa parte del piano settimanale Flaneuse. Chi è iscritto ad ogni forma di abbonamento potrà leggerla tutta, chi invece ha una sottoscrizione free arriverà solo ad un punto.
Per chi è abbonato questa mail parla di:
- Il lavoro ci rende felici?
- Libri, film, serie tv per approfondire il tema del rapporto tra lavoro/felicità e vocazione di ieri e di oggi
Vi ricordo anche che il 28 Aprile alle 19.00 ci vedremo su ZOOM per il nostro BookClub dedicato a Jean Paul Sartre.
A questo link trovate la prima diretta che abbiamo fatto su di lui … insieme alla prof Maria Russo, con la quale ci siamo incontrate per una seconda lezione (alcune hanno partecipato in diretta altre in differita) sul senso della libertà. Il significato che aveva per Sartre e il senso che ha oggi la sua lezione.
A Maggio le attività previste sono queste (non escludo di aggiungerne altre.. dipende come va il mio panzone, perdonatemi ma è un impegno che non posso rimandare…):
Il 7 MAGGIO ci sarà il prossimo appuntamento Flaneuse in giro per Milano! Posso finalmente rivelarvi chi sarà l’autore con il quale scopriremo insieme Milano. Si chiama Gian Andrea Cerone ed è l’autore di Le notti senza sonno (Guanda editore)noir ambientato a Milano che farà molto parlare di sé.
Guanda e l’autore hanno scelto le Flaneuse (e i Flaneuse) per parlarne la prima volta!!!
Condividerò il form per partecipare alla passeggiata Martedì 26 Aprile nelle mie stories di Instagram.
Nella settimana che va dal 16 al 20 Maggio (la data precisa ve la comunicherò nella prossima NL) farò la mia prima MASTERCLASS su “parlare di libri sui social” che mi avete tanto richiesto.
Le modalità di iscrizioni vi verranno comunicate nelle prossime NL e nelle mie prossime stories.
Siete felici?
Come sempre se avete osservazioni, dubbi, perplessità scrivetemi a flaneuse.milano@gmail.com
Per partecipare alle attività qui sopra potete sottoscrivere uno degli abbonamenti al Club Flaneuse.
Vi faccio un riassunto!
ABBONAMENTI
Le modalità che vi permettono di far parte del “mondo Flaneuse”- che possiamo anche definire “club”:
- Iscrizione free alla newsletter: riceverete una newsletter al mese completa e potrete accedere a tutti gli incontri free su Instagram.
- Abbonamento a 5 euro al mese: newsletter complete ogni settimana con tanti consigli di lettura, visione e spunti di riflessione. Potrete partecipare alle camminate Flaneuse (che quindi per voi saranno free) e avrete agevolazioni per corsi e altri incontri/contenuti esclusivi
- Abbonamento annuale a 40 euro l’anno: newsletter settimanale completa.
- Abbonamento gold a minimo 70 euro l’anno: membri onorari del club Flaneuse. Riceverete newsletter tutte le settimane e avrete la possibilità di partecipare alle camminate, agli incontri online e a tutti corsi
Provo a rispondere alle domande che so che mi farete (ovviamente se ne avete altre rispondetemi a questa mail o scrivetemi in DM):
Per partecipare alle camminate flaneuse cosa devo fare?
Iscrivermi alla newsletter, per ora, o con l’abbonamento mensile o con abbonamento gold.
Oppure iscrivermi alla newsletter free o all’abbonamento da 40 euro aggiungendo una quota di partecipazione.
Se non sono iscritto alla newsletter flaneuse posso partecipare alla camminata flaneuse?
No, purtroppo non puoi partecipare
Se non sono iscritto alla newsletter flaneuse posso partecipare ai corsi e incontri esclusivi?
Sì, ma non avrai agevolazioni per iscriverti. Se invece fai parte del club, sì.
E ora veniamo a noi.
In realtà avrei voluto parlarvi di tutt’altro che però rimando alla prossima settimana.
Ho cambiato idea quando questa mattina in edicola ho trovato Marie Claire e un articolo di Andrea Bajani (con cui ho appena chiacchierato del suo ultimo libro che consiglio a tutti i neo-papà a questo link dal titolo La bolla del lavoro. Sottotitolo: ci hanno fatto credere che far coincidere la professione con la propria passione e i colloqui di lavoro co l’aperitivo ci avrebbe reso felici.
In cui Bajani intervista la giornalista americana Sarah Jaffe autrice del libro, appena pubblicato in Italia da Minimum Fax “Il lavoro non ti ama” Secondo Jaffe, la devozione al nostro lavoro – che ci hanno convinto essere l’unica via possibile di realizzazione, felicità, manifestazione delle nostre passioni- ci ha resi esausti, sfruttati e soli.
Una riflessione che si mescola al dibattito che si è sviluppato in questi giorni a partire da una intervista ad Alessandro Borghese (e altri chef) sul Corriere della Sera in cui lo chef si lamenta del fatto che non ci sono più i giovani di una volta: non sono più disposti a “spaccarsi la schiena” a pochi euro per fare carriera.
Affermazioni che sono state confermate anche dall’imprenditore Flavio Briatore.
Altro elemento da mettere nel calderone per accendere una riflessione sul lavoro è questo: le cifre che sono state diffuse dal Ministero del Lavoro relative al secondo trimestre del 2021 in cui si registra una notevole crescita nel numero delle dimissioni dei dipendenti.
“Tra aprile e giugno 2021, invece, si registrano quasi 500mila dimissioni (290mila uomini e 190mila donne), con un aumento del 37% rispetto ai tre mesi prima. Se si confronta invece il medesimo trimestre del 2020, l’incremento è dell’85%. Da un punto di vista prettamente economico, questa tendenza potrebbe indicare un mercato in salute, in cui il Covid-19 ha svolto il ruolo del detonatore, aprendo le danze a un proficuo rimescolamento dei ruoli e delle risorse. Il 60% delle aziende è coinvolta dal fenomeno delle dimissioni volontarie e nella maggior parte dei casi (il 75%) sono state colte di sorpresa rispetto a una tendenza inattesa. Le fasce d’età maggiormente coinvolte riguardano i 26-35enni che rappresentano il 70% del campione seguita dalla fascia 36-45 anni. Si tratta quindi di un fenomeno giovanile collocato soprattutto nelle mansioni impiegatizie (l’82%) e residenti nelle regioni del Nord Italia, (il 79%).
Le ragioni?
La ripresa del mercato del lavoro (48%), la ricerca di condizioni economiche più favorevoli in altra azienda (47%) e l’aspirazione a un maggior equilibrio tra vita privata e lavorativa (41%) sono le tre ragioni principali che sono alla base della crescita esponenziale delle dimissioni seguite, subito dopo, dalla ricerca di maggiori opportunità di carriera (38%)”.
Un trend che conferma quello che già sta succedendo negli Stati Uniti: i giovani non ci stanno più ad essere sfruttati per lavori che non li rendono felici e non li fanno stare bene.
Secondo McKinsey nel 2022 il 40% dei dipendenti penserà di cambiare lavoro.
Tutto questo cosa significa?
Qual è il giusto equilibrio tra lavoro, felicità, sacrificio, fatica, perseguimento della carriera?
È giusto far combaciare queste due parole? (lavoro e felicità)
Da quando è nata questa convinzione?
Come si sta evolvendo e in quale direzione la società?
Ai tempi di mia nonna -e di Luciano Bianciardi di cui vi ho messo esergo sopra- il lavoro non era di certo il luogo della “felicità”.
Era il posto in cui poter guadagnare, mantenere la famiglia. Pochi erano i fortunati che potevano studiare e svolgere mansioni di intelletto.
Di certo però lo storytelling era diverso: non si cercava lavoro per la felicità. Si cercava lavoro perché c’era bisogno.
Poi i tempi sono cambiati e, come dice Jaffe, il lavoro è diventato il territorio della passione, della realizzazione, della possibilità di gioia.
Ma può il lavoro rendere felici? O è solo una trovata di marketing?
Un tempo avrei urlato sì sbracciandomi con la mano.
Oggi rispondo, sì, ma con riserva.
Dipende dal lavoro, dipende da quello che cerchi, dipende dall’attitudine con la quale ti poni.
Perché la risposta è sempre più complessa del: ma no il lavoro non è la vita, la vita è altro.
Oppure: il lavoro è la via principale per raggiungere una forma di realizzazione.
Dipende dal lavoro, dipende dalla vita, dipende da chi siamo in quel momento.
Quando ero molto giovane sono stata molto fortunata- e dunque nella supponenza della giovinezza anche molto poco grata, davo tutto per scontato- e mi sono ritrovata presto nel luminoso allineamento astrale tra lavoro- passione- vocazione.
Me ne rendevo conto fino ad un certo punto.
Mi impegnavo, lavoravo moltissimo, studiavo, non avevo orari né dicevo mai di no. Avevo dei capi, ero sottopagata come tutti i miei coetanei ma ero contenta perché “amavo quello che facevo”.
Poi il tempo è passato, gli equilibri si sono disallineati e io ho perso la bussola.
Non capivo più cosa mi interessasse davvero: il successo? Lavorare in tv? Guadagnare più soldi?
Fare quello che pensavo di desiderare (e che desideravo), ovvero occuparmi delle cose che mi piacciono (libri, film, arte con una vocazione alla divulgazione), a mano a mano diventata sempre più evanescente.
E di fronte a dei no, alle chiusure di alcuni programmi, a quelli che all’epoca chiamavo “fallimenti” ma che in realtà erano semplicemente la vita che si manifestava, iniziai a brancolare.
A inseguire quello che non avevo mai inseguito, a credere troppo nelle parole degli altri.
Il risultato?
Come dicevano i filosofi esistenzialisti- in particolare Heidegger che ha fatto tante cose terribili, come affiancare il nazismo, ma ha anche pensato molte cose intelligenti- quando il tuo progetto di vita smette di essere allineato alla tua autenticità, allora compare la crisi.
E cosa si fa? Quando compare una crisi esistenziale la cosa migliore che si possa fare è non ignorarla.
Affrontarla, soffrire, chiedere aiuto, prendere una bella torcia e guardarsi dentro.
Spesso nei DM su instagram o nelle mail che mi mandate mi chiedete: come si fa a scoprire la propria vocazione?
Non ci sono ricette, o almeno io non ne conosco.
L’unica cosa che so è che imparare ad ascoltarsi, conoscersi, dirsi le cose come stanno è sempre un buon punto di partenza.
Avere il coraggio di cambiare, di dire no, di andar incontro a se stessi.
E dunque come si scioglie questa matassa del lavoro?
La carriera rende felici?
Si scioglie non facendosi fagocitare dai ritmi, dalle promesse, dagli aperitivi con i capi. Del ricatto emotivo a cui spesso il lavoro (e il: ma faccio un lavoro che mi piace!) conduce.
Mi ha fatto molto sorridere nell’articolo di Bajani il racconto dei suoi aperitivi con i capi- Ci siamo passati tutti (e ci stiamo ancora passando): situazioni in cui si mescolano rapporti umani a lavorativi in match di fronte a prosecco e tartine in cui entrambi i soggetti cercano di mascherare dietro a una formale empatia (e quindi? Come stai? Tuo marito? I bambini?) il vero obiettivo di quell’incontro.
Il sottoposto (o la partita iva nel mio caso) che cerca aumenti, collaborazioni, opportunità
Il “capo” che prova a far capire che la situazione è molto complessa, non può promettere niente, soprattutto denaro.
Lasciandosi andare spesso a confidenze che il giorno dopo ti penti di aver manifestato.
Avendo iniziato a lavorare molto giovane sono rimasta scottata più e più volte da rapporti lavorativi in cui ero convinta ci fosse davvero un elemento umano (quando pensavo ci fosse amicizia sono stati i casi in cui sono stata maggiormente delusa) e che invece mi si sono ritorti contro.
Ho sofferto moltissimo. Ho anche pagato prezzi altissimi per certe mie frasi dette con ingenuità alla persona sbagliata (che poi è andata a riferire).
Ero convinta che il mondo mi sorridesse e mi avrebbe sorriso sempre.
Invece no. All’improvviso in un dato momento della mia carriera, prima che cadesse tutto per rinascere, mi sentivo costantemente in una puntata di Game of Thrones.
I dati dicono che i giovanissimi oggi alla “carriera” prediligono il benessere sul posto di lavoro.
Che a “tanti soldi” preferiscono orari più ridotti, possibilità di mangiare bene, cucinare, avere tempo per le pause pranzo e di prendersi le ferie.
Fanno bene, soprattutto in un momento storico in cui non ne vale più davvero la pena.
Negli anni ’90 “vendevi l’anima al diavolo” come le single newyorkesi di Sex and The City che corrono da un appuntamento a un brunch, ma eri talmente ripagato per farlo che forse nemmeno ti ponevi il problema.
Oggi non ne vale la pena, si guadagna sempre e comunque (tranne rare eccezioni) troppo poco. Anzi forse la via migliore per autorealizzarsi economicamente è essere “imprenditori di se stessi”. Le aziende perdono fascino, il “sacrificarsi” ore e ore e ore per qualcun altro che non sei tu perde fascino (e senso).
Però come spesso accade forse il giusto come dicevano gli antichi sta nel mezzo.
Perché qualsiasi cosa si scelga di fare ed essere richiede forme di sacrificio e fatica.
Questa settimana ho finito il mio prossimo libro. Avevo mal di schiena, un po’ di febbre, gli acciacchi della gravidanza.
Ho fatto fatica? Sì.
Sono contenta di questa fatica? Certo, perché faccio una cosa che mi piace, che desidero, che mi rappresenta ma che rappresenta comunque un sacrificio (invece che andare in giro a comprare tutine per il mio bambino sto ore seduta davanti a un computer).
La newsletter? È fatica? Certo. Invece che andarmene in giro con il mio fidanzato il sabato mattina sono qua che digito sui tasti per una cosa in cui credo e a cui tengo molto.
E così via.
Parlo di me ma sono certa che se fossimo al bar mi raccontereste la stessa cosa.
La fatica, una forma di sacrificio sono necessari: per imparare, migliorarsi, crescere.
Qualsiasi cosa si scelga di fare.
È giusto fare fatica senza guadagnare niente?
No. Non è giusto. Ha senso farlo in una primissima fase, in quella che dovrebbe essere il momento della “gavetta”, in cui si impara per poi sbocciare e intraprendere il proprio percorso di carriera.
Purtroppo ora questa “gavetta”, questo “fa curriculum” può durare anni e anni in un sistema.
Ho tante, troppe amiche che si sono risvegliate a più di 30 anni dopo stage non retribuiti, master, dottorati, altri stage, senza avere un percorso.
E la domanda: “ e quindi… che faccio?”
Esiste allora una soluzione? Come si fa?
La soluzione sta nel rispettare se stessi.
Se ci si rende conto che questa “gavetta” tira troppo la corda, imparare a chiedere.
Se non viene dato, allora bisogna cambiare, ingegnarsi, fare qualcosa.
Purtroppo in un momento storico di grande incertezza, l’unica certezza che abbiamo siamo noi.
Per questo oggi più che mai ha senso apprendere gli strumenti per metterci in connessione con noi stessi (e quello che desideriamo davvero), momento per momento. Fase per fase.
Ci sono fasi della vita in cui dedicare tanto di sé al lavoro ha un senso, anche formativo. Altre fasi in cui, invece, accettare di non averne più voglia.
Di avere bisogno di tempo, di fermarsi, di “non avere nulla da fare”.
Il mito del lavoro sta evaporando. Bene.
Però allora bisogna avere il coraggio di abbracciare altre forme di gestione del proprio tempo e del proprio spazio.
Ed è bellissimo leggere e conoscere i “cambi vita” straordinari (chi molla il contratto a tempo indeterminato e inizia a girare il mondo, l’avvocato che molla lo studio scrive un libro e diventa un best seller eccetera eccetera) ma esistono anche le piccole scelte ordinarie, che, a ben vedere, non sono in realtà piccole per niente, perché portano una mamma che affoga tra orari d’ufficio, tate, asili e sensi di colpa a trovare una forma di occupazione più adatta alle sue esigenze.
Magari guadagnando meno, ma di certo acquisendo maggiore felicità.
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