La rovina (Undoing), l'Amore e Hugh Grant
Ciao amici,
bentrovati.
Spero stiate bene e che questo inizio anno vi stia cogliendo allegri.
Io, vi dirò la verità, mi sto lasciando stupire dai nuovi inizi.
Spesso mi avete chiesto di scrivervi qualcosa sull’amore. Ci provo oggi. Passando per una serie tv. Fatemi sapere che ne pensate.
La mia prima settimana del 2021 ha un titolo racchiuso in un’azione che viene giustificata dal suo complemento oggetto: binge watching di The Undoing.
Abbuffarsi di una serie tv da cui non ci si riesce a staccare.
Non mi succede sempre (Breaking Bad, Mrs Maisel, Fleabag e qualche altro eccezionale caso), di venire assorbita, rapita, proiettata in un universo che mi porta a seguire una storia senza volerne uscire.
Hugh Grant. Nicole Kidman. Donald Sutherland. Un bambino meraviglioso interpretato da Noah Jupe.
Lei fa la psicoterapeuta, aiuta le coppie a “conoscere” i propri partner e i propri matrimoni. Lui l’oncologo infantile. Dolce, presente, tenero, praticamente perfetto come Mary Poppins. Sono ricchi, borghesi, raffinati. Di quella New York fatta della stessa materia di cui sono fatti i privilegi contemporanei.
Eventi benefici, cappotti d’alta sartoria (quelli di Nicole/Grace sono pazzeschi, quello verde pistacchio in particolare: specchio della sua emotività e del suo essere perfetta, algida, distrutta dagli eventi), mamme in carriere prestigiose che trovano il tempo di fare tutto, soprattutto giudicarsi le une verso le altre (sul tema vi consiglio il libro di Wednesday Martin “Nella giungla di Park Avenue").
Il figlio frequenta una scuola progressista dalle rette altissime. Il nonno, Donald Sutherland, si rilassa passando giornate di fronte alle opere d’arte del MET uscendo dal suo castello dorato. Poi all’improvviso tutto crolla, quando una mamma sensuale (Matilda De Angelis) e che vive ad Harlem in un bilocale sgangherato e allatta la figlia al seno di fronte alle altri madri sdegnate, viene ritrovata uccisa barbaramente nello studio in cui dipinge.
Chi era questa donna? Come poteva permettersi le alte rette della scuola? Chi l’ha uccisa?
The Undoing si presenta come un thriller ma è un viaggio nel tunnel spietato delle relazioni coniugali. Un po’ come aveva fatto un’altra serie, che avevo amato molto, Big Little Lies. Un percorso nei sentimenti (l’amore) e i condizionamenti sociali (il matrimonio). La distanza che tutti percepiamo e su cui tutti ci arrovelliamo tra aspettative rispetto ad un’idea (l’amore, again) e la realtà (gli effettivi comportamenti. Nostri e del partner che scegliamo).
Verità, bugie, quello che raccontiamo e quello che non riusciamo nemmeno a svelare a noi stessi
“Tutti gli esseri umani hanno tre vite: pubblica, privata e segreta” diceva Gabriel Garcia Marquez.
“The Undoing” è una serie tv che parla di verità inconfessabili, dei misteri racchiusi in un matrimonio, delle ombre che ci avvolgono e travolgono, dell’impossibilità di “afferrare” l’altro.
Conoscerlo, vederlo. Andare oltre la coltre dell’apparenza costruita col cesello di “quello che noi pensiamo che dovrebbe essere e pertanto è ovvio che tu che stai con me debba essere come io penso che tu sia”.
La serie è tratta da un romanzo che è stato un bestseller negli Stati Uniti nel 2014 “You should have known”. In italiano “Una famiglia felice”.
Il titolo originale è una rivelazione di per sé
“Avresti dovuto saperlo”
Avresti dovuto sapere chi hai sposato.
Avresti dovuto sapere chi si nascondeva lì dietro.
Non farti cogliere impreparata.
Il romanzo, della scrittrice newyorkese Jean Hanff Korelitz, che ho letto subito dopo aver chiuso il pc aver visto la serie, sottolinea molto di più, rispetto alla versione in audiovisivo, la professione di lei. Il suo approccio alla vita. Le menzogne e le bugie che lei stessa ha deciso di raccontarsi.
Il libro si apre con un’intervista: una giornalista di Vogue incontra Grace, psicoterapeuta dalla parcella altissima che aiuta le donne newyorkesi a farsi una ragione rispetto ai comportamenti dei mariti fedifraghi, liberarsi dalle trappole in cui loro stesse si sono infilate sena rendersene conto. Ha scritto un libro che diventerà certamente un bestseller che si intitola appunto “Avresti dovuto saperlo. Perché le donne non sentono ciò che gli uomini della loro vita stanno dicendo”.
Il suo mantra, che ripete a tutte le sue pazienti, è: fidati del tuo istinto. La prima impressione è quella che conta.
Fidati del tuo istinto che ti suggerisce che la persona che hai scelto di sposare non è quella che tu pensi che sia.
Fidati del tuo istinto quando vedi che l’uomo di cui ti stai innamorando ha comportamenti che non ti piacciono (un donnaiolo, un bugiardo…).
Le persone non si possono cambiare. Nemmeno quelle per cui proviamo un colpo di fulmine.
“Se una donna decide di condividere la sua vita con un compagno sbagliato non deve aspettarsi che lui cambi”.
“In molte sospettano la verità, poche la riconoscono come tale”.
“Lo avevi capito da subito che il tuo compagno non avrebbe smesso di flirtare con altre. Che aveva le mani bucate, che ti avrebbe fatta sentire inferiore. E questo sin dalla prima conversazione, o dal secondo appuntamento, o quando lo hai presentato alle tue amiche. Eppure, chissà come facciamo in modo di disintuire ciò che abbiamo intuito”.
E via così. Snocciolando quello che è il tema e il mistero e la parte più insondabile dell’amore.
Che cosa ci porta verso una persona? Perché ci innamoriamo? Come facciamo ad afferrarla e conoscerla?
Che, se ben ci pensate, per chi sta leggendo La Crociera di Virginia Woolf, è un tema non molto lontano da quello affrontato da Virginia nel raccontare il rapporto tra Rachel e Terence (in tutte le loro infinite disquisizioni sui loro sentimenti.. siamo innamorati? Non lo siamo? Cos’è l’amore?).
“Non si scelgono le persone per le loro qualità intrinseche” dice più o meno Mrs Dalloway a Rachel. Ci si innamora e basta. Altrimenti ci innamoreremmo tutti degli stessi esseri umani. Buoni, bravi, accoglienti. Ordinati, puliti, cordiali.
Grace predica alle sue pazienti (anche agli uomini ma nel romanzo dice 9 su 10 dei miei pazienti sono donne) quando siano state partecipi della menzogna in cui hanno vissuto perché non hanno avuto la forza di accorgersene. Di credere al loro istinto che suggeriva loro “che la persona che avevano deciso di sposare era “sbagliata”.
“Quando incontri la persona giusta lo sai e basta. È successo così con mia moglie”.
Dice il fotografo di Vogue a Grace.
“Il guaio di contare su quel “lo sai e basta” è che scartiamo le persone che non ci suscitano un’emozione immediata. Per la verità credo che esistano molti partner ideali per ciascuno di noi: ne incontriamo di continuo, ma siamo così affezionati all’idea del colpo di fulmine da trascurare una quantità di persone magnifiche, solo perché non ci fanno sentire le farfalle nello stomaco”.
E poi si ritrova travolta dall’errore più grande. Il suo castello di carte crolla perché la persona che ha scelto è la più sbagliata di tutte e lei nemmeno se n’era accorta.
Aveva costruito attorno a lui – e alla loro famiglia- una narrazione esemplare, quella che tanto deprecava nelle sue pazienti. L’uomo -la persona- di cui ci si innamora diventa il nostro eroe.
Lo idealizziamo, assolutizziamo e lo sfruttiamo ad uso e consumo della nostra favola personale.
“Lei era il punto di luce sul quale convergeva la totalità delle cose” scriveva Flaubert.
Per Jung l’amore romantico ha qualcosa di fatale. “L’amore romantico è inesorabilmente legato alle fantasie” dice la sociopsicologa di orientamento junghiano Ellen S. Bersheid.
L’amore, ancora una volta, è in fin dei conti il raccontarci una storia. E farlo talmente bene da non riuscire a vederci dietro. Non scorgere la menzogna, la bugia e quell’unica verità, che mi sento di definire tale.. che la persona giusta non esiste. E che l’amore è un sentimento – così complesso, inafferrabile e quasi indefinibile- non un’espediente narrativo per un romanzo rosa, tutto pizzi merletti e torte nuziali.
La letteratura ce l’ha raccontato molto bene (per darvi alcuni titoli) in Girotondodi Schnitzler, La donna giusta di Sandor Marai, Felici i felici di Yasmina Reza. Che raccontano ognuno in maniera diversa, come in The undoing e in Big little lies, che dietro ogni coppia – o famiglia- apparentemente felice è contenuta una bugia.
Fausta Cialente (scrittrice italiana di cui vi parlerò presto) sosteneva negli anni ’50 che il più grosso problema delle donne e dell’emancipazione femminile fosse contenuto nei romanzi a puntate delle riviste che si concludevano con l’immancabile matrimonio, come le fiabe. E invitava le scrittrici a cambiarne i finali.
Il matrimonio (che oggi nel 2021 potremmo anche definire “convivenza” o “relazione a lungo termine”) non è il fine ultimo dell’esistenza. Il matrimonio non è la panacea di tutti i nostri mali. È probabilmente più l’inizio di altri. Che non ci coinvolgono più come singoli ma in relazione ad un altro essere umano che per quanto possiamo sentire vicino rimane sempre e comunque “altro” da noi.
Come ci racconta Iris Murdoch in quel romanzo che è divertente e leggero ma svela senza vergogna i tanti aspetti dell’amore, dell’innamoramento, del poliamore e dell’attrazione che è Una testa mozzata – era il 1961- in cui due coniugi apparentemente perfetti svelano l’un l’altro i loro tradimenti e le loro bugie, ritrovandosi – dopo molte vicissitudini che non vi racconto- meno perfetti, ma probabilmente più veri.
Io non so quale sia il segreto dell’amore.
Non so quale sia l’essenza dell’innamoramento (un battito di cuore? Un movimento di ovaie? Un’attrazione fatale?).
So – e me ne sono resa conto più tardi- di aver lasciato perché le aspettative che avevo non rispecchiavano la realtà.
So – e anche qui me ne sono resa conto più tardi- di essere stata lasciata perché non rispecchiavo le aspettative dell’altro (ma come… anche tu sei un essere umano?).
Non so, ancora meno, la formula magica per far durare le relazioni.
Però quello che mi viene da pensare, come in ogni cosa, è la necessità di cambiamento di prospettiva. Di raccontarci una storia diversa.
Perché in tutto questa riflessione sull’amore, sulle bugie, sui “doppi cuori” come li ha chiamati Marco Missiroli in un articolo di Vanity Fair, sul “giusto” e lo “sbagliato” mi viene da pensare (incrociando le dita e sperando di non incontrare un sociopatico assassino come Hugh Grant) che l’amore sia contenuto in quello spazio.
Lo spazio che sta tra la nostra idea e il reale.
Noi stessi e l’altro.
Tra il colpo di fulmine e la connessione con ciò che non potremo mai conoscere fino in fondo perché è fuori di noi.
Tra “l’ideale romantico” e lo spazzolino da denti.
Tra le farfalle nello stomaco e i piatti sporchi nel lavandino.
E che la vera rivoluzione che possiamo attuare in questo momento storico così strano, complicato, di distanze, di difficoltà di raggiungimento dell’altro perché ognuno è troppo chiuso dentro il suo racconto, non solo per narcisismo ma anche per sopravvivere all’ignoto in cui questa situazione e la contemporaneità e le dating app e l’amore liquido ci hanno buttato, sta nell’accoglimento.
Accogliere l’impossibilità della perfezione.
Accogliere i limiti e la fallibilità dell’amore.
Le titubanze, le incertezze, il non sentirci sempre e costantemente in una commedia romantica degli anni ’90.
Innamoriamoci dello sbaglio.
Dell’errore.
Delle paure e dell’imperfezione.
Di ciò che “non ci aspettiamo”.
Di quello che “non rispecchia la nostra idea di “compagn* ideale”.
Di ciò che ci stupisce.
Della diversità.
Di quello che si intuisce e che non si racconta.
Del malinteso e dell’incomprensione.
Non “la serata perfetta” “l’intesa perfetta” “la sensazione perfetta”, non dell’aspettativa di un sentimento o di una condizione. Ma di quello che c’è, nel suo mutare e nel suo essere minuto dopo minuto.
Aspettiamoci di venire delusi e di deludere. Di venire feriti e ferire.
Di risultare noiosi.
Di venire annoiati.
Di non essere “la coppia più invidiata di Park Avenue”.
Di non essere salvat* dall’altro, ma accompagnati nel nostro processo di conoscenza di noi stessi. Attraverso l’altro, accanto all’altro, non buttandoci sull’altro ricercando non si sa bene quali palingenesi.
Di non conoscere mai davvero chi dorme nel nostro letto, perché non conosceremo mai nemmeno noi stessi figurati chi sta fuori da noi.
Di voler fuggire, ma poi tornare indietro.
Di sbagliare, una, due, tre volte.
Ma avere il coraggio di dire, ogni volta, “mi dispiace”.
Forse l’amore può essere un moto a luogo.
Tenendosi per mano, allontanandosi per un po’, creando insieme un percorso. Non sempre e necessariamente guardando nella stessa direzione, ma, ogni tanto, quando ci voltiamo e guardiamo sul lato, stupirci nel dire
“Ma tu, sei ancora qui?”.