La solitudine 2 (colpisce ancora, cit.), il cactus e Irene Brin
“Come stai?”
“Bene, eh compatibilmente al mondo”
Questa è la risposta che sto dando da almeno due settimane a questa parte, alla frase d’esordio nel mondo che ho intorno (sto citando Brunori)
Come stai
E come si deve stare
Si sta come un cactus (o fico d’India non lo so, non correggetemi sempre) davanti al baule Singer della mia bisnonna. Si prende un po’ di sole, si resiste, si cerca di crescere. Senza perdere pezzi, se con un po’ di sostegno ai lati, meglio.
Benritrovati a tutti, benvenuti ai nuovi che siete una quantità smisurata per i miei parametri cosa che mi inorgoglisce, mi rende grata e mi fa salire la solita ansia da prestazione.
Questa è la mia newsletter. Non so bene come siano le altre, la mia funziona così… che vi racconto come sto e le cose a cui ho pensato in questa settimana e poi vi consiglio un po’ di film e libri tra le varie cose che mi sono capitate sotto mano.
Chiunque abbia voglia può scrivermi, io cerco di rispondere sempre a tutti. Se non riesco è perché ho poco tempo, ma poi recupero.
Ogni vostra parola per me è uno spunto, nulla viene sottovalutato. Non siate timidi.
È stata anche questa una settimana intensa e densa di incontri, interviste, riflessioni.
Parole e spunti che ci avvicinano, mettono in moto la testa, non la lasciano sopperire. In questo momento incerto, a tratti difficile, umoralmente (mio neologismo) instabile, emotivamente provante.
Non è come il primo lockdown. Ce ne siamo resi conto tutti (non ce la posso fare! Mi dicono le mie amiche in videochiamata. Non ce la posso fare! Mi dicono il 90% delle persone che sento…”non ne possiamo più”).
Non so da dove mi leggiate… zone rosse, gialle, arancioni. Io penso che, in fondo, siamo tutti sulla stessa barca (come dice Alex Bellini, l’esploratore che nelle sue avventure ha trovato il suo metro dell’esistenza, l’intervista la trovate qui)… che ci siano aperti i ristoranti a pranzo o meno (diciamo che io a Milano sto sulla barca più scassata… ma va bene così).
Una barca che ci sta tenendo a galla in un mondo che demolisce e distrugge quello che conoscevamo, come dice lui nel suo libro “Il viaggio più bello. I 6 nodi da sciogliere per vincere la paura della trasformazione” (vi lascio il link per acquistarlo). Lui cita Shiva e l’induismo. Shiva è il dio della distruzione e rigenerazione. Per rinascere bisogna distruggere.
È strano, come la giri e la prendi… dalla psicologia, dalla filosofia antica, dalla poesia, dal buddhismo, l’induismo, lo yoga, dal buon senso, il risultato è sempre quella cosa che diceva Epicuro che elaborava la sua filosofia (che intendeva come via per vivere bene, in sostanza un manuale di autoaiuto ante litteram, docenti di filosofia uccidetemi) in un momento storico di grande crisi e sovvertimento dei valori (la “Grecia classica”, le polis, il dominio del logos lasciavano spazio all’Ellenismo, la confusione, l’invasione, l’uomo che si sente abbandonato a se stesso e mette addirittura in dubbio gli Dei): le cose che non puoi controllare lasciale perdere, concentrati su quello che puoi cambiare. Dalle crisi, possono nascere opportunità se però lo vogliamo.
E quello che possiamo cambiare, cari miei, siamo noi stessi. Adattarci al mondo che cambia.
E come si fa? Concentrandoci sui nostri valori, la nostra creatività, il nostro senso, quello che significa per noi “bene”.
Non voglio fare la predicatrice, sono una che ricerca come voi la solidità in questo mare di incertezze. Come più volte vi ho detto, io quella solidità la ritrovo nelle parole e nelle storie. E ve la ripeto ogni volta qui perché e davvero facile perdere il filo.
Parlare solo di quello che non va.
Smettere di ridere.
Lamentarci.
Non vedere una via d’uscita.
Abbandonarci alla malinconia.
Qualcuno mi ha chiesto, su instagram, se provo malinconia. Certo, e chi non la prova. Mi ha fatto molto ridere come la racconta Daniela Collu (che è un fenomeno) nel suo libro Un minuto d’arte -guardatevi la diretta, alla fine legge quel capitolo, fa disperare e ridere come sanno fare quelle brave-
Quella è la melanconia, ovvero come nel ‘600 si definiva la depressione. Tra malinconia, tristezza e stato patologico le differenze sono tante ed è un tema serissimo che non può essere preso con troppa leggerezza. Però posso dirvi come ero io e come sono ora.
Sono stata una ragazza e poi una donna che si lasciava andare alla malinconia, rischiando di affogarci dentro.
“Mi sento come Virginia Woolf con i sassi in tasca” dicevo, crogiolandomi nel malessere. Perché a volte il problema sta lì… nel crogiolarsi, nel trovare nella propria perdita di senso un rifugio. All’inizio ti senti protetto, ma in breve tempo quella tana diventa una gabbia da cui non riesci più ad uscire.
C’è stato un tempo in cui per uscirne mi aggrappavo al lavoro, che c’era in abbondanza. Mi strafogavo di lavoro, mi affollavo di lavoro, volevo non fare altro che lavorare. Quando poi tutto ad un certo punto si è fermato, non avevo più salvagenti. Ero io, la mia malinconia, la mia misura.
È lì che ho scoperto, grazie ad una brava analista e ottimi libri, il super potere della solitudine che se vissuta come opportunità, ti insegna a immergerti dentro di te. A riconoscere le tue emozioni, a non lasciarti travolgere, a “irrobustirti”.
Questa parola è una citazione che vi svelo tra poco.
Perché nel mio viaggio nella solitudine ho letto molti libri di psicologia, neuroscienze… e ho capito che non ero l’unica a pensarla così. Ci sono studi scientifici che provano che le persone solitarie o che comunque hanno sviluppato un buon rapporto con la solitudine sono più positive, più empatiche.
VE NE RIPORTO UNO, FATENE QUELLO CHE VOLETE
Nel 2012, il Dottor Birk Hagemeyer della facoltà di Psicologia dell’Università di Jena, in Germania, ha condotto uno studio intitolato “The Desire of Being Alone”, in cui ha creato una scala per misurare il nostro grado di socialità di chi si sente bene quando si ritrova solo, scegliendo di starci.
In sostanza per lo studioso e il suo team, la discriminante “di serenità” nella solitudine sta nell’accogliere o meno la possibilità di rimanere single a vita. Quella che Hagermeyer definisce non è una solitudine assoluta e totale, da monaco tibetano, che sceglie un allontanamento dal mondo per trovare una connessione spirituale con la natura, quanto più l’immagine di una Carrie Bradshow intenta a scrivere i suoi articoli dopo un aperitivo con le amiche a casa da sola sommersa da scarpe, senza l’ossessione per Big e il matrimonio da fiaba Disney finale.
Il ritratto che ne emerge è esaltante. Chi sa stare bene da solo, chi non ha paura di rimanere “alone”, che nello studio di Hagermeyer diventa sinonimo di “single”, presenta le seguenti caratteristiche.
Chi ama trascorrere del tempo da solo sa gestire meglio le proprie emozioni ed è meno soggetto a “esplosioni” di cattivo umore, disagio, frustrazione.
Le persone che apprezzano la solitudine hanno in genere una mente più aperta: sono originali, curiose e fantasiose.
Il loro tratto distintivo, per quanto sembri contraddittorio, è la gentilezza, la vicinanza e l’empatia.
L’abitudine ad approfondire il proprio universo personale li predispone a riconoscere meglio le necessità, le paure o le inquietudini altrui.
Non vorrei che questo vi apparisse un elogio dell’asocialità. Io amo la socialità, amo i miei amici, adoro le persone. Le relazioni umane sono l’unica cosa per cui vale la pena vivere.
Ma credo anche che questo momento di distanziamenti possa essere uno stimolo per porci delle domande.
“Chi sono le persone che davvero mi mancano?”
“Come mi racconto io, da solo, senza bisogno degli altri per definirmi?”
C’è una donna che nella sua vita e nella sua opera ha affrontato molte volte il tema della solitudine.
Questa donna si chiamava Maria Vittoria Rossi, anche se in molti la conoscono come Irene Brin.
Di Irene Brin parlerò in una diretta Lunedì alle 21.00 ospite di Filippo Taddia (@leggoecammino)
Ognuno ha le sue ossessioni, Beth Harmon per gli scacchi, la Principessa Margaret per le sigarette... Io tra le mie ossessioni ho lei.
L’ho scoperta per caso perché, nonostante sia stata una delle più grandi giornaliste italiane, adorata da Pirandello, indagata da Indro Montanelli, lodata da Leo Longanesi nessun manuale di giornalismo ne parla.
A lungo dimenticata, per troppo tempo mai citata, i suoi libri , oggi, sono quasi tutti fuori catalogo.
Ma prima di Oriana Fallaci, prima di Natalia Aspesi, prima di qualsiasi brava giornalista di costume italiana, c’è stata lei.
Quando dico… Irene Brin, la gente mi guarda spaesata. Alcuni mi rispondono “Ah la giornalista di moda”.
E mai cosa è stata più sbagliata. Nonostante sia vero che lei abbia legato il suo nome a riviste di moda importanti, come Harper’s Bazaar per cui è stata Rome editor (cioè.. collaborava da Roma, la prima che promosse e incoraggiò il made in Italy nel mondo) dagli anni ’50 alla sua prematura scomparsa nel 1969. Adorata dalla mitica Diane Vreeland che un pomeriggio per caso la fermò a New York per chiederle di chi fosse il tailleur che indossava.
Irene Brin è stata un animo inquieto e contraddittorio. Una donna cosmopolita che parlava cinque lingue e ha girato il mondo, ma che si definiva “provinciale”. Figlia di un generale dell’esercito ligure e madre austriaca e algida. Penna tagliente, scrittura ironica e affilata.
Irene è stata una donna che ha fatto dell’eleganza il suo metro di misura, ma che si è sempre sentita goffa.
Una donna che ha scritto e letto, per tutta la sua vita. Un romanzo al giorno, diceva. Venerava la letteratura (soprattutto Proust) ma non ha mai voluto scrivere un romanzo (tranne uno che è stato pubblicato postumo ora per edizioni Clichy , Le perle di Jutta)
Una donna che ad un certo punto della sua vita (lunedì vi racconterò come e perché) ha deciso che la scrittura troppo intima non faceva per lei, perché in quel modo di scrivere troppo profondo e indagatorio della propria solitudine, sarebbero finite tutte le sue malinconie.
E lei, non voleva.
Allora decise di celarsi dietro alle maschere. A quelle maschere che non ha mai smesso di costruire intorno a se stessa, firmando i suoi articoli (per dodici quotidiani, una trentina di riviste, Irene scriveva sempre e voleva scrivere dappertutto, per un totale, si dice di diecimila articoli) con nome de plume tra i più disparati.
Lei si chiamava Maria Vittoria Rossi. In famiglia la chiamavano Mariù.
Si firmò però anche Oriane, Geraldine Tron, Maria Del Corso, usando il cognome del marito.
Irene Brin glielo cucì addosso Longanesi (un nome che mescola il fascino greco agli scintilliii veneziani, diceva lui)
Contessa Clara è stato il suo “nickname” più famoso. Quella donna di cui per molto tempo- scrisse una rubrica per il “cinegiornale” Incom per 19 anni- non si conosceva l’identità. Si immaginava fosse una nobile austriaca di 70 anni che dispensava consigli di buone maniere, in realtà era Irene.
I suoi manuali, negli anni ’60, come se fosse una nostra In cucina con Benedetta, finivano sugli scaffali di migliaia di donne italiane. Si intitolano Galeto della Contessa Clara, magari lo ritrovate sugli scaffali delle vostre nonne.
Casalinghe, studentesse, madri, mogli, nonne, zie, che nella scrittura letteraria e umana della Contessa non trovavano soltanto consigli per come mettere i piatti in tavola, ma soprattutto spunti di vita, stimoli, una via per credere in loro stesse.
Irene (chiamiamola così) educava e divertiva. Con leggerezza, prendendosi in giro, senza essere mai perentoria.
La più intellettuale di tutte, nel senso più vero di essere intellettuali… avvicinare la cultura a tutti. Ma è stata rifiutata e derisa dall’intelligentia.
Per Irene tutto era parte di tutto. L’alto e il basso. La moda e la grande letteratura. Il racconto di due ragazze che superano la malinconia andando a fare shopping per Via Condotti e la Recherche di Proust. L’arte contemporanea che promuoveva nella galleria che gestiva col marito, L’obelisco, e i coni gelato da passeggio, che non sopportava, ma che erano rappresentativi di un’Italia che si trasformava a cambiava tra il dopoguerra e il boom economico. Come la televisione che definisce “probabilmente non è una forma d’arte, e nemmeno di informazione poiché soggiace a tendenze politiche ed isteriche assolutamente discutibili”.
Postmoderna ante litteram, femminista in incognito, che per difendere la sua autonomia e la sua libertà scelse un compagno, Giacomo Del Corso, che più che un marito è stato un amico, un sodale, uno spunto intellettuale (lunedì vi racconto un po’ di più….).
Una donna Artemide, come le definisco ormai io, che al mondo si presentava luminosa e scintillante ma dentro coltivava gelosamente il suo “pozzo” non permettendo quasi a nessuno di entrarci.
I suoi libri li tengo sul comodino e li riapro quando non so più dove andare.
Nella raccolta “Dizionario del successo, degli insuccessi e dei luoghi comuni” pubblicata da Sellerio (che deriva da un suo Galateo e da altri scritti)
Alla voce solitudine scrive così
Malattia di cui le donne soffrono assai più che gli uomini, e cercano di combatterla con assoluta ingenuità. Alle lettrici che mi scrivono di uscire dal loro isolamento io ho raccomandato per anni lo sport, la beneficenza, l’associazione a circoli culturali, ricevendone la stessa risposta “Non sono sportiva. Non sono buona. Non sono buona. Non sono intellettuale. Sono stufa di essere sola e basta”
Perché nessuna capiva che un club sportivo o archeologico o musicale le avrebbe consentito continui contatti sociali: mentre, attraverso le opere pie, avrebbe ottenuto contatti umani.
Gli uomini normali sono sempre incasellati meglio delle donne: la scuola, la vita militare, l’ufficio, perfino l’abitudine di mangiare in trattoria e di prendere il caffè al bar li collocano e li trattengono in gruppi diversi e solo se esuli provano la necessità della corrispondenza o della presenza di estranei. Nessuno capì e apprezzò la solitudine meglio di Poe “and all I loved, I loved alone”, questa forza compatta.
Imparate a goderne per concentrarvi, irrobustirvi, capirvi.”
Concentriamoci, irrobustiamoci, capiamoci. Irene ne sarebbe contenta.
Ah come l’ho scoperta… è stato una decina di anni fa, attraverso Franca Valeri.
Ma questo ve lo racconto lunedì.
State bene,
Marta
Ps. Se tutto questo non basta alziamo la musica e balliamo per la stanza. So che anche questo a Irene, amante folle dei dischi, piacerebbe. Credo le starebbe simpatica anche Alexa.