La solitudine della zona rossa
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Vi chiedo, se avete voglia, di condividere con me le riflessioni a cui queste “mail” o lettere o pensieri in libertà vi portano. Scrivetemi dove volete. Via mail. Su instagram. Vi leggo sempre.
“Accadono spesso fatti negativi che mai si ripeteranno uguali. Ma, nel corso della nostra esistenza, quegli stessi fatti che ci hanno ferito, o solo fatto un po’ soffrire, potranno tornare a ripetersi sotto altre forme, in altre situazioni, e se la prima volta abbiamo saputo affrontarli, ci faranno soffrire di meno.”
Mi ronzano queste parole di Louisa May Alcott nella testa mentre guardo, di nuovo, sembra un po’ il giorno della marmotta, fuori dalla finestra.
È tornato anche Gatto (lo so non sono originale, ma fatemi fare questo tributo a Holly), il gatto grigio che aveva deciso di passare con me il lockdown di marzo/aprile. Veniva nel mio giardino tutti i giorni. Ad un certo punto ha preso anche il coraggio di entrare in casa. Mi guardava con quell’aria “noi due ci riconosciamo”.
Poi è scomparso per tornare qui ieri.
“Ciao sono tornato, lo so che forse hai bisogno di me.”
A Milano siamo di nuovo chiusi in casa, in una clausura meno rigida di quella dei mesi scorsi, ma che fa sentire il suo peso psicologico.
Un peso che va oltre la circostanza. Un peso fatto di incertezze, paura per il futuro, perdita di senso.
Ritornano addosso quelle sensazioni che avevamo messo a tacere. La confusione impalpabile del tempo che all’improvviso perde di nuovo di linearità (su questo tema vi rimando ad un post che avevo scritto il 9 Marzo 2020) per ritornare circolare e incessante.
E non è una questione di ciò che si può fare e non può fare. È una questione di nuove attese per un tempo e un mondo nuovi.
Abbiamo messo la testa sotto alla sabbia, abbiamo finto che tutto si fosse risolto. Non lo è.
Sapete che non parlo di questioni che non mi competono. Seguo l’attualità e ho opinioni politiche ma non le discuto perché non sento di avere gli strumenti per farlo. In questa situazione in particolare, formulare opinioni è molto difficile. Di certo sono stati commessi degli errori come scriverebbe Jonathan Franzen e continuano ad essere compiuti.
Ma vale tutto e il contrario di tutto e la gravità di quello che stiamo vivendo va talmente oltre i colori (giallo!arancione!rosso!) e i partiti politici che lascio a chi di competenza il ragionamento fattuale.
Quello che faccio io è, come sempre, ritornare a me e a quello che posso fare io in una situazione del genere.
La prima cosa è rendermi conto di essere, ancora una volta, fortunata. Ho amici e conoscenti i cui familiari o loro stessi stanno combattendo contro la malattia che dai più mi viene raccontata come qualcosa di molto serio, che colpisce differenziandosi da individuo a individuo. Non segue copioni. Attacca e colpisce.
Il virus è democratico, abbiamo letto più volte.
Il virus non guarda in faccia chi sei.
Siamo tutti vulnerabili.
Alzare la mano e dire “mi sento vulnerabile” è già un primo passo. Il cammino è incerto e pieno di buche, bisogna procedere a piccoli passi.
Quello che posso fare io è ricordarmi che in qualsiasi momento di sofferenza, come mi ricorda Louisa May Alcott, sono ripartita da ciò che più mi identifica e ciò che sono.
I libri, le parole, le storie degli altri.
Cercare le risposte per la mia vita nelle parole scritte da altri (ogni lettore legge se stesso diceva Proust, no?).
Lì trovo la misura della mia solitudine.
La solitudine è sempre stata la mia condanna, il mio punto di ritorno e di partenza. Un luogo da esplorare, uno spunto di riflessione, una parola da dimenticare.
Una misura delle distanze che mi separano dagli altri. La mia più grande paura.
Un fatto della vita con cui ad un certo punto ho dovuto fare i conti, prima che la solitudine diventasse una questione di tutti, prima che un evento enorme e catastrofico come la pandemia rendesse il tema della “solitudine” un argomento di massa. Un problema collettivo. Un argomento che non poteva più essere evitato.
Fino a prima della pandemia la “solitudine” era identificata come il grande male oscuro della società contemporanea. L’estrema conseguenza dell’impatto delle tecnologie sulle nostre vite. Il baluardo dell’individualismo, una sfida e un atto di forza.
Ci raccontavamo di stare bene da soli, anche se per nessuno forse era vero, ma era un segreto che non andava rivelato.
Scrivevo un po’ di tempo fa, partendo da una frase di Nietzsche.
“L’aspetto più difettoso del nostro tipo di formazione e di educazione è che nessuno impara, nessuno aspira, nessuno insegna… a sopportare la solitudine.”
Di solitudine non si parla mai abbastanza. È una parola confusa che contiene in sé una duplice radice negativa e positiva che la lingua inglese ben identifica usando due termini “alone” e “lonely”. Si può essere soli senza sentirsi soli. Ci si può sentire soli anche in mezzo ad una folla.
Prendere coscienza del mio senso di solitudine ha migliorato il contatto con me stessa. Capire cosa mi riempie anche quando mi sento un guscio vuoto mi ha dato gli strumenti per affrontare le situazioni sentendomi solida sulle mie gambe.
Non succede sempre, non è un automatismo, mi ci vuole impegno, attenzione e concentrazione. Ma ritornare alle parole, le mie e quelle di altri, aiuta.
In questo preciso momento storico ci sentiamo tutti un po’ soli. Non necessariamente perché “siamo soli”.
Io vivo da sola ma non mi sento sola. Ho persone che mi vogliono bene e che, seppure nella distanza, sento più vicine che mai. Per assurdo le sento più vicine ora con un messaggio su whatsapp che in mille aperitivi in cui ognuno portava se stesso incurante dell’altro.
Forse la bellezza collaterale di questo momento drammatico e terribile sta in questo: nella capacità di vedere quei semi che se coltivati potrebbero fiorire, usando una metafora scontata ma sempre efficace.
Contare le persone che ci scrivono e che si preoccupano per noi. Tenerle nel cuore. Farlo anche noi nei confronti degli altri.
Una ragazza su instagram – in questo dialogo bellissimo che ho con voi e che mi fa crescere giorno per giorno mettendomi alla prova e non vi ringrazierò mai abbastanza- qualche giorno fa mi ha chiesto “dei libri che infondano speranza”. La speranza è il Sacro Graal dell’oggi.
Siamo felici quando stiamo bene nel nostro presente e riusciamo a proiettarci nel futuro.
Se ci pensate… le sensazioni di felicità derivano quando in una coppia siamo in grado di stare bene nel momento e immaginare insieme un futuro (altrimenti se stiamo male nel momento e non vediamo un futuro.. forse non è amore ma è solo struggimento). Siamo felici quando il nostro lavoro ci dà soddisfazione e riusciamo a immaginarci nel futuro facendo quel lavoro e migliorando nel farlo.
Ora siamo tristi perché queste proiezioni sono annullate. Non è colpa nostra. Non è colpa di nessuno. Siamo travolti dalla storia e dal destino come nel finale di Casablanca.
Ma come dice Ingrid Bergman ad Humphrey Bogart “avremo sempre Parigi”.
Parigi per loro è il luogo dove si sono sentiti felici. Lo conserveranno nella memoria.
Io penso, e ne sono convinta ogni giorno di più, che la nostra Parigi stia dentro di noi, va solo scoperta e coltivata.
Ricercata, entrando in connessione con le nostre solitudini senza averne paura.
Beth Harmon nella Regina di Scacchi è proprio dialogando con la sua solitudine che trova la sua ragione di esistere e la linfa per diventare più forte. È superando il suo isolamento mettendo in connessione la sua solitudine con quella degli altri (chi ha visto la serie lo sa) che riesce ad essere felice.
Non vi consiglierò dei libri che “infondono speranza”, non ancora. Non ci sono ancora arrivata io. Vi consiglio però dei libri che mi hanno aiutata nel confronto con me stessa.
Spero vi regalino un conforto e delle parole che possano diventare anche le vostre.
STACCATEVI UN PO’ DAI TG. COLTIVATE LA VOSTRA PARIGI.
Grazie sempre per tutto
La vostra giornalista di quartiere
Marta