M COME MAMMA / F COME FILM - SPECIALE VENEZIA
Care e cari eccoci di nuovo qui con questa newsletter/diario/recensioni da Venezia.
Qui procede tutto bene tra nanne di Orlando, film e star di Hollywood.
Pensieri, riflessioni, vento forte e spritz che posso solo guardare e ancora non bere (se non voglio ubriacare mio figlio).
Una neo- mamma al festival
Non ho mai amato le definizioni. Ho sempre guardato con sospetto chi nella bio di instagram metteva al primo posto (prima di sytar di Hollywood, presidente del mondo, astronauta, professore) “mamma di”.
Non ho mai pensato che l’essere madre potesse essere una definizione assoluta e assolutizzante, venire per forza prima di tutto il resto e –in alcuni casi- cancellare tutto o metterlo in pausa.
Poi mamma lo sono diventata e il mio punto di vista è ovviamente cambiato e sto facendo i conti con la realtà proprio qui a Venezia, in un luogo in cui vengo da 15 anni (prima da studentessa amante del cinema, poi giovane giornalista entusiasta, poi conduttrice tv con abiti in paillettes) che mi ha vista crescere, emergere, stancarmi, sognare, cadere per terra, innamorarmi, soffrire, sbagliare, provarci di nuovo.
Ci pensavo questa mattina mentre ero alla proiezione stampa di Bardo, falsa cronica de unas cuentas verdades di Alejandro Gonzales Inarritu, che è un regista che amo e che in questa pellicola fa i conti con se stesso.
È il suo 8 ½ , il film in cui prende le misure col successo, la crisi creativa, l’ansia di vivere la vita vera, la famiglia e l’arte. Un film molto personale, magniloquente, pieno di immagini esose e straordinarie, che rischia di essere eccessivamente autocelebrativo e solipsistico nonostante la bellezza (a volte la bellezza, anzi spesso non salva dall’ego).
Cosa c’entra il mio essere mamma con Inarritu?
La Perego (cioè io) si è talmente rimbecillita col bimbo che vede maternità in tutte le cose?
C’entra nella misura in cui la visione di questo film ha suscitato delle riflessioni dentro di me (Marta Perego, quasi 38 anni, mamma da 3 mesi, giornalista e che fa cose su instagram) in questa fase della vita.
Ho sempre pensato che, se l’arte ha un senso, quel senso è creare un ponte tra quello che l’artista pensa e mette in scena e il suo spettatore.
È la magia dell’empatia e della rappresentazione.
Quando vedi (o leggi, o immagini) vite di altri che ti entrano negli occhi e nel cervello, lo smuovono, mettono in moto, aprono le porte dell’introspezione, creano un varco che ti collega con quello a cui nella vita fuori dalla sala cinematografica (pannolini, lavoro, ansia, quotidianità) non avresti né occasione, né tempo, né voglia di pensare.
Ebbene.
Mentre vedevo il film di Inarritu è successa una cosa che non mi succedeva dal 6 giugno (data di nascita di Orlando): distaccarmi da me, entrare in una storia e provare ad uscirci diversa.
I film mi hanno sempre fatto questo effetto.
Entro in una sala, spengo il pensiero, mi butto nel buio in una storia, esco e sono più libera.
Sono stati la mia cura e la mia via di introspezione (in alcuni casi meglio della psicoterapia), la mia parentesi, la mia crescita interiore.
Da quando sono mamma questo non accadeva da un po’.
E non accadeva perché 1. Non è che sia riuscita ad andare molte volte al cinema come ben immaginerete 2. Avere un bimbo a cui badare ha preso tutto lo spazio.
Quando ho scelto di venire alla Mostra del Cinema ero molto titubante, impaurita, insicura e incerta.
Orlando è troppo piccolo.
Come faccio a stare lontana da lui per le 2 ore (in realtà i film di venezia sono molto più lunghi…) di un film?
Mi sentirò in colpa?
Che razza di madre sono che vuole ributtarsi nel lavoro e non le basta avere a che fare col suo buffo frugoletto?
Credevo di essere anestetizzata ormai rispetto a certi archetipi introiettati che vogliono la madre appagata e felice di starsene in casa a poppare tutto il giorno.
Invece l’arrivo di Orlando ha cambiato tutto.
Ha rovesciato le certezze, aperto varchi oscuri che credevo chiusi e dimenticati.
Da quando c’è lui è tornata la paura (che si faccia del male, che io gli possa fare del male, che io non possa prendermi cura di lui in maniera adeguata).
Si è insinuato il senso di colpa (cosa ci faccio qui a vedere dei film mentre il mio piccolo è con il papà).
Ho passato i primi due giorni a dilaniarmi nel pensiero di sbagliare. Di essere stata troppo egoista, di continuare a voler essere quello che non sono più.
Ma cosa diamine sono … ora?
Questi due mesi (quasi tre) sono stati un tale frullatore da aver confuso i contorni.
C’è chi forse si sente “mamma” da subito (nel momento in cui vede gli occhi di quell’esserino che è cresciuto nella tua pancia per mesi causandoti il reflusso gastrico, la sciatica, qualche cistite). Io non so cosa mi sono sentita.
Ho avvertito paura e responsabilità. Tenerezza e terrore.
Ho dovuto fare i conti con l’ignoto (ma come diavolo funzionano questi bambini), la frustrazione, la stanchezza, il non sentirmi all’altezza.
“Non riuscirò mai ad essere una buona mamma”.
Una mamma che va al festival di Venezia per lavorare, inseguire la sua passione, anziché buttare tutta la sua energia in quello che – dicono- dovrebbe essere l’assoluto: tuo figlio.
Ma vedendo Inarritu che si confessa allo spettatore in un film troppo lungo e troppo pomposo, mi è risuonata nella testa quella parola di cui non ho mai inteso la definizione – mamma.
Cinque lettere, un mondo, una nuova vita.
E ho capito che forse quei sentimenti che stavo provando e che non avevo mai provato prima (il non riuscire a staccare il pensiero, l’apprensione, la preoccupazione, la confusione) stanno nella sua definizione.
Che la mia percezione della maternità è compresa tra le mie paure e i miei sensi di colpa.
Nella mia identità in via di definizione.
Nei miei tentativi di creare un ponte con quello che c’era prima arricchendolo del nuovo.
Uscita dal cinema Andrea mi è venuto incontro con Orlando che guardava ammirato le luci del red carpet. Era così piccolo e indifeso. Dolce e curioso.
Ho pensato: Ecco.
L’ho abbracciato sentendolo vicino come mai prima.
Dopo essere stata lontana.
Dopo aver attraversato in una sala cinematografica la mia solitudine ritrovata.
Prendendo le misure con quello che non so, riempiendolo di quello che c’è (il suo corpo morbido e caldo, il suo desiderio di starmi attaccato).
E mentre lo portavo al mio petto, incamminandoci verso il ristorante, gli ho sussurrato all’orecchio “Sono la tua mamma”.
PS- Lo so vi avevo promesso che vi avrei parlato dei film, che vi avrei fatto una cronaca del festival, attori, registi, recensioni.
Ma questa mi è uscita così.
Forse anche questo (e forse soprattutto) è il cinema.
Vi abbraccio
A domani
Marta