P COME PATERNITA' E COME POESIA
Chissà perché voi che li avete ve ne lamentate sempre
– dal film I figli degli altri
Care e cari, bentrovati.
Prima di tutto mi scuso infinitamente per aver saltato la settimana scorsa ma mi sono ammalata. Non succedeva da anni di avere la febbre così alta. Forse il mio corpo dopo questi primi tre mesi (quasi quattro) di Orlando ha deciso di obbligarmi a stare a letto.
Per un giorno solo però perché è stata una settimana carica di cose.
Sono stata a Fano, alla Memo per presentare un progetto di lettura digitale con le scuole superiori della città (non vedo l’ora!).
E poi a firmare in casa editrice le copie del mio nuovo libro scritto con Valeria Locati.
Avremo modo e tempo di parlarne. È un libro che ho scritto per rispendere alla domanda “come si fa a ritrovare fiducia in amore?” “come possiamo superare definitivamente gli stereotipi dell’amore romantico e ridefinire un amore che parta all’amore per noi stessi?”
È stato un viaggio avventuroso e non sempre facile, che mi ha profondamente cambiata e trasformata.
Quando ho chiamato Valeria per la prima volta dopo aver fatto una diretta con lei e dirle “ma ti andrebbe di scrivere un libro con me?” era un anno e mezzo fa.
Io ero sola, felice di esserlo e convinta che la mia vita adulta si sarebbe evoluta nella solitudine, nello studio e nell’autoaffermazione.
Un anno e mezzo dopo le vite (sia la mia che quella di Valeria) si sono completamente stravolte. Forse mostrando forme di verità.
Nel mio caso la verità è che sì mi piaceva stare sola a studiare, ma trovare una persona con cui condividere la vita, dare vita ad un 1+1=3 poteva far parte della mia realizzazione.
È un libro a cui tengo molto, che spero sia una voce amica, uno spunto di riflessione, un punto di partenza per il cambiamento.
Una miccia che faccia esplodere il desiderio (di cambiare, di leggere altro, di volersi bene, di diventare se stessi).
Esce il 7 ottobre. Se volete preordinarlo lo trovate qui .
Ieri ho letto su Sette- l’inserto del Corriere della Sera- una bella intervista a Marco Missiroli di cui sto leggendo il suo Avere tutto.
Il romanzo, che sto amando molto, un libro diverso dai suoi romanzi precedenti, forse più sincero, sicuramente molto umano, è a tutti gli effetti un romanzo sulla paternità.
Sandro torna a Rimini da Milano perché una serie di cose gli sono andate storte e scopre che il padre, Nando, sta per morire.
Mancano pochi mesi, è un count down esistenziale straziante che porta Sandro a fare i conti con se stesso, dall’infanzia all’età, a quella voglia di giocare (Sandro è un giocatore d’azzardo), mettere a rischio tutto, farlo senza sensi di colpa, fino a che quel “tutto” non lo perdi.
È un romanzo quasi senza trama, che si pone la domanda sul che significa “essere figli” (oggi in questa contemporaneità in cui ci si sente figli per sempre).
E se la pone Missiroli che nel 2019 è diventato papà della piccola Margherita che alla domanda su come sia cambiata la sua vita risponde così.
“La paternità è stato il colpo più duro della mia vita.
Non l'ho digerita facilmente perché credevo di essere
figlio di una generazione più antica, di fatica, di ac-
cudimenti, invece ho scoperto di essere parte della
nuova generazione del meno sforzo, delle minori ri-
nunce, e un figlio ti porta a dover espandere il cuore
secondo gradi di fatica che non conoscevo, soprattut-
to in una famiglia come la mia, in cui il lavoro è divi-
so al 50 per cento fra uomo e donna. Avere tutto ha
assorbito anche lo slancio che si prova ad accudire un
figlio. È stata la mia partita di poker più importante».
Un colpo duro. La difficoltà delle rinunce. Espandere il cuore verso grandi fatiche.
Mi ha fatta molto riflettere questa definizione che sento anche un po’ mia.
Diventare genitori (padri o madri) significa rinunciare: ai propri spazi, alla propria assoluta libertà, al proprio tempo (che non rimane più solo tuo, ma diventa suo). Ed è difficile. In una contemporaneità in cui l’idea del sacrificio lascia il posto all’autoaffermazione, che è sacrosanto (non ha senso “sacrificarsi” per i figli) ma dall’altra parte si dimentica che avere un figlio significa soprattutto “avere cura di qualcosa al di fuori da te che dipende completamente da te”.
Avere un figlio non è un’amplificazione di noi stessi.
Non è un avere un nuovo argomento da condividere sui social.
È prendersi cura di un altro, con necessaria fatica.
Una fatica che ti mette alla prova e in dubbio.
Essere figli, essere padri.
Non serve chiamare in causa Freud per ricordarci che tutto nasce lì. Nei legami primari. Nella loro presenza o assenza, nel nostro modo di interpretarli. Nel nostro essere capaci di scrollarceli di dosso, ridefinirli.
Ridefinire noi stessi alla luce dei legami che ci sono capitati.
“Tu non conosci tuo padre, sei libera. Puoi reinventarti”.
Dice il giovane Charlie Chaplin Jr. a Norma Jean in Blonde.
Il film di Andew Dominck tratto dal romanzo di Joyce Carol Oates con Ana De Armas in cui viene raccontata Marilyn Monroe al di là del mito, incontrando la donna fragile e vittima (degli altri e di se stessa), alla costante ricerca del proprio padre – che l’ha abbandonata da piccola- e che lei cerca nei suoi amori: Joe DiMaggio, Arthur Miller, il Presidente Kennedy.
(del film, del romanzo e di Marilyn parleremo mercoledì 5 alle 21.00 su Zoom, per iscriverti clicca qui ).
Quando ho scritto Le grandi donne del cinema una manciata di anni fa, ho scoperto che moltissime “grandi donne del cinema” sono cresciute senza padre o nell’assenza dello sguardo paterno. Jodie Foster, Bette Davis, Hillary Swank e molte altre.
Come se la ricerca dell’approvazione del mondo passasse da questa mancanza.
Come se l’essere viste –da tanti, su un grande schermo- potesse essere una risposta.
(Anche Giorgia Meloni è cresciuta senza padre. La politica non è il mio territorio, ma penso che la dinamica sia la medesima).
Antonia Pozzi, la poetessa a cui abbiamo dedicato la camminata Flaneuse dello scorso sabato aveva un papà che si chiamava Roberto. Le voleva bene ma forse non ha mai visto in lei ciò che lei avrebbe desiderato
Nell’Italia del Fascismo, Antonia sognava la creatività e la poesia. Il suo animo fragile e ribelle mal stava nella Milano bigotta, rigida e di facciata della Milano alto borghese in cui il padre, proveniente dalla provincia, figlio di insegnante, aveva sognato di entrare e ce l’aveva fatto sposando una nobile, diventando uno degli avvocati più bravi. Pretendendo perfezione da se stesso e da ciò che aveva intorno (anche sua figlia).
Rileggere le poesie di Antonia (amata da Paolo Cognetti, Luca Guadagnino, vi consiglio di vedere questo film su Raiplay). Mi ha fatta innamorare e arrabbiare. Era così contemporanea, intima e forte nel suo desiderio di evasione.
Ma nello stesso tempo così insicura. Capace di tirarsi su e poi buttarsi nella sua oscurità.
Si è sentita rifiutata da tutti i suoi amori (prima il professore del liceo, poi i suoi compagni di Università che erano troppo giovani e troppo concentrati sulla filosofia per desiderare un rapporto duraturo e dei bambini come avrebbe voluto lei).
Lei voleva l’assoluto. Anche dalla sua poesia, rifiutata e criticata dal suo maestro, Antonio Banfi professore universitario attorno a cui si riuniva il circolo di intellettuali dissidenti di cui faceva parte anche Antonia.
Per lui era una poesia troppo intima, troppo sentimentale.
Consigliò ad Antonia di metterci più distanza.
Non aveva capito che proprio in quell’io stava la forza della sua scrittura.
Proprio nella sua intimità, nel suo non metterci un filtro.
E senza filtro – per come poteva esserlo in un’epoca così lontana dalla nostra- era anche la poesia di Saffo.
Ne abbiamo parlato con Silvia Romani, docente di Mitologia, Religioni e Antropologia all’Università Statale di Milano e autrice di La ragazza di Lesbo.
Saffo rivoluziona il canto poetico attraverso le parole d’amore. La gelosia, la brama, il desiderio, l’emozione.
In un mondo in cui la lirica era legata alla guerra e il canto all’epica lei aggiunge l’intimità del sentimento.
«C'è chi dice sia un esercito di cavalieri, c'è chi dice sia un esercito di fanti,
c'è chi dice sia una flotta di navi sulla nera terra
la cosa più bella, io invece dico
che è ciò che si ama»
Non si sa molto sulla sua famiglia. Veniva certamente da un contesto aristocratico nell’isola di Lesbo.
Ebbe un padre, dei fratelli, un marito.
Ma la verità sulla sua biografia rimane un grande mistero, avvolto dalla poesia.
Forse anche lei ha bramato la rivoluzione.
Forse il tiaso (la scuola in cui formava in canto, danza, poesia le fanciulle) è stato il suo modo di sentirsi libera in un mondo in cui non riusciva ad essere compresa – dal padre-.
Forse come, diceva Philip Roth, scrivere serve a questo. A cercare la propria indipendenza, dai padri.
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Io e Valeria Locati presenteremo il nostro libro Martedì 11 ottobre alle 19 alla Libreria Colibrì.
Organizzeremo una passeggiata prima della presentazione alle 18.00. Seguiteci su Instagram per avere tutti i dettagli!!!
Un abbraccio a tutte e tutti e a presto,
Marta