S COME STANCHEZZA
“Nel mondo moderno il tempo assomiglia ad un nastro trasportatore inarrestabile, che ci consegna nuove attività da sbrigare non appena abbiamo portato a termine quelle precedenti; “diventare più produttivi” non fa che aumentare la velocità del nastro”
“Più siamo convinti che sia possibile trovare il tempo per tutto, meno ci chiederemo se ciò che stiamo facendo è la cosa migliore”
Come fare per avere più tempo, O. Bukerman
“Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me”.Sylvia Plath
Partiamo da una situazione paradossale.
Una donna incinta al nono mese che invece che godersi le ultime settimane di pancia, dormire e stare a poltrire su un lettino al mare – dove si trova in questo momento- è sul balconcino della camera dell’hotel a scrivere una newsletter che parla di stanchezza.
La donna in questione come avete capito sono io (maddai…) e la newsletter è quella che state leggendo.
Non fraintendetemi, sono felicissima di farlo. Scrivere le newsletter è il mio tempo di approfondimento prezioso che mi perfette di “fissare” cose lette, viste, pensate settimana per settimana e condividerle con voi.
Ma la domanda che mi faccio è: perché lo faccio?
Perché è un impegno e un piacere.
Un impegno che mi sono presa con voi, soprattutto con chi ha deciso di sostenere il mio lavoro anche economicamente.
Un piacere perché scrivere mi piace, mi tiene vita, mi allena le sinapsi del cervello.
Ma non è finita qui.
Il lavoro – non so per quanti e quante di voi sia così- è anche un ottimo rifugio rispetto a tutto al resto. Nel mio caso al pensiero che tra poche settimane mi troverò in una stanza con un lettino, una palla da pilates e altri strani marchingegni a cercare di espellere (si dice proprio così: momento espulsivo… prendetevela con la medicina non con me) il bambino che è cresciuto nel suo corpo.
Ed è vero. Come spesso accade in questi ultimi momenti di gravidanza… sono stanca. Stanca di avere un bimbo che mi pesa sulla pancia, stanca del mal di schiena, stnca del reflusso gastrico, stanca di vedermi allo specchio nella versione che è il doppio di me stessa.
E quindi lavoro.
Non perché lo debba fare davvero e nemmeno perché “è la mia vocazione” oppure “sono le follower che me lo chiedono”. Lo faccio perché mi è comodo. Lo faccio perché è la mia zona di comfort. Lo faccio perché la stanchezza è un codice che conosco. È una giustificazione, non solo uno stato d’animo.
Un modo per sentirmi “ a posto con me stessa” e permettermi di andare a letto in qualche modo serena (anche se …. Distrutta).
Sono stanca ma produco.
Sono stanca ma non riesco, non posso… fermarmi.
Perché siamo sempre tremendamente stanchi?
Perché nel mondo dell’iperproduttività e iperattività la risposta più frequente che si può ottenere al classico “Come stai?”
È “Distrutta, ma bene”
“Affollata di cose da fare, ma non mi lamento”
“Annaspo tra gli impegni- e forse nemmeno sto bene”
“Affogo- e no non sto bene per niente”
Una cosa che ingenuamente pensavo era che il mio stato di mongolfiera contente un bambino mi avrebbe portata a godere del privilegio del “sentirsi stanca e ammetterlo senza provare colpa verso gli altri”
Ebbene. Non è così per niente.
Da quando alla domanda “come stai?” rispondo francamente “Sono stanca” (cosa che non ero solita fare, perché nel bilanciamento tra stanchezza ed entusiasmo per fare cose che mi piacciono ha sempre preponderato il secondo), di rimando ottengo spesso un
“Ah anche io, sono morta/morto/mort* nonostante non sia incinta”
E inizia così una gara sottesa tra le reciproche stanchezze che francamente non mi interessa.
La competizione esistenziale la ritengo davvero poco interessanteJ
Sono due settimane in cui però mi rendo conto di uno stato di malessere generalizzato. Siamo esausti: del lavoro, delle nostre vite private, della situazione internazionale, dell’incertezza dei tempi, dello stare sempre sui social network, dell’avere troppe notizie sempre a portata di smartphone, del non poter disconnetterci mai, del doverci sempre dimostrare all’altezza, pronti, reattivi, sorridenti, se con la battuta e il sorriso pronto ancora meglio.
Siamo esausti. E non sappiamo nemmeno il perché.
According to the American Psychological Association, as of January 2022, nearly 3 in 5 people report feeling mentally and emotionally exhausted. This phenomenon has even been termed the “Other Pandemic”.
Secondo l’associazione degli psicologi americani, circa 3 persone su 5 vivono una situazione di esaurimento mentale ed emozionale. Un fenomeno chiamato “l’altra pandemia”
Per due anni abbiamo vissuto una vita assurda, di paure e chiusure. Questo ci ha stressati più di quanto eravamo già stressati prima e anziché prendere le buone intuizioni che abbiamo formulato i primi mesi di lockdown “dobbiamo rallentare! Vivere una vita più consapevole e sostenibile!” e trasformarle in realtà, da quando tutto ha riaperto rincorriamo il tempo perduto come dei Bianconigli impazziti senza più riferimenti.
Sul perché non siamo capaci di fermarci e trovare un equilibrio tra fare e non fare, ho dedicato capitoli del mio M come Milano in cui identificavo la mia città come il luogo simbolo del “fare, lavorare, pagare, pretendere”.
Un luogo dove se non fai, produci, sei, mostri, performi (questa è peffommmance come direbbe Virginia Raffaele) non esisti. Non sei interessante, non ha alcun senso parlare con te.
E quindi il modo migliore per stare è fingere- anche se non lo si è- di essere sempre, estremamente impegnati.
Ma perché ci siamo ridotti così?
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