Solidarietà e nostalgie
Ciao a tutti,
come state?
Io sto come una donna di 36 anni nel suo loft in attesa di uno yorkie (il mio cagnolino) mentre scende la pioggia che sporca le mie vetrate.
Le avevo appena pulite (io con il valido aiuto del mio house manager Augusto, sapete che non sono quella che propriamente si definirebbe la “perfect housewife”).
Pazienza. Si sporcheranno e passeremo di nuovo l’aceto (io lavo i vetri con l’aceto che uso anche per le piastrelle del bagno, mi confermate che si può fare?).
TRANQUILLI.
Respirate.
Non avete sbagliato newsletter. Non mi sono trasformata in un’esperta di bricolage e pulizie d’appartamento.
Sono la solita inadatta alla vita pratica di sempre.
Dicevo che sto in questa settimana in cui l’umore si è fatto sentire tra alti e bassi. Andate e ritorni. Noie e superamento delle tali.
Ero in effetti diventata troppo brava a regolare il mio umore negli ultimi mesi, stava scritto che avrei avuto dei cedimenti e li ho avuti.
Forse l’essere uscita di casa per lavorare, incontrando persone “nuove” (tutti con mascherine, tamponi, io faccio in media un tampone a settimana da mesi e vi assicuro che sono ancora viva e lo consiglio VIVAMENTE a tutti) mi ha fatto ritornare con la mente alla vita “di prima”.
Uscendo dalla mia solitarietà, mescolandomi alla nostalgia, il cortocircuito è stato letale.
L’effetto: lo spalmarmi sul divano e vedere senza pause la quarta stagione di Call my agent (ma che figa la puntata con Charlotte Gainsboirgh, ma quanto la amo, ma che meraviglia) senza riuscire a staccarmi. Senza minimamente riuscire ad impormi di fare qualcosa di proficuo (anche se vedere Call my agent è proficuo a mio parere), tipo scrivere il mio podcast (martedì ritorna, ve lo prometto, farò una puntata speciale su una scrittrice che amo molto e che si chiama Miriam Towes di cui ho appena letto l’ultimo libro pubblicato in Italia “Swing Low” che in realtà è il suo secondo romanzo per dettagli qui sotto), la newsletter- che sto scrivendo ora che è venerdì sera anche se a voi arriverà di sabato-, preparare un nuovo corso di “lettura” che sto approntando con amore, dedizione e che spero vi piacerà e a cui spero parteciperete.
Mi avete chiesto, nelle domande che vi ho fatto ieri su Instagram, di cosa volevate che vi parlassi.
Del superamento della noia, la ricerca della vocazione, di amore (ancora! Ve ne parlerò promesso), superare lo stress.
Vi ringrazio per la fiducia, ma forse io riesco a scrivere solo di cose che sento e quello che sento è uno strano stato di disconnessione dal reale, di solitarietà come vi scrivevo che per me inizia a significare il risvolto positivo della solitudine. Essere solidi nell’essere solitari. Soli senza sentirsi soli. È uno scudo, una corazza che ormai mi sono cucita addosso e che non voglio abbandonare. Il che non significa che non mi apro all’incontro con l’altro ma, come vi dicevo nella famosa NL sull’amore, non ricerco interventi salvifici ma condivisione di esistenze.
(REMINDER: Per essere autentici dobbiamo aver attraversato e superato l’angoscia dello stare soli. La solitudine accettata in quanto tale diventa fonte di creatività e conduce al superamento di sé – scrive lo psichiatra parigino Gerard Macqueron).
“La coppia è una comunità i cui membri hanno perso la loro autonomia senza liberarsi della solitudine.”
SIMONE DE BEAUVOIR
Riesco a scrivere di cose che sento dentro di me, che non sempre sono positive ed edificanti. Anzi di solito parto sempre da una condizione di insoddisfazione per poi trovare la chiave per cambiare il mio “mindset” come dicono gli psicologi e i manuali di autoaiuto.
Su questo tema, il “mindset” però – prima di proseguire- vorrei spendere una parola. Funziona.
Funziona sforzarsi di cambiare la propria prospettiva sulle cose. Funziona non raccontarci più di essere delle povere orfanelle sotto la pioggia, ma donne determinate e che sono in grado di costruire il proprio sé indipendentemente dalle influenze lì fuori (uomini che non ci vogliono, lavoro che non sempre ci soddisfa).
Funziona fare una cosa che consigliano coach, psicologi e che io non so perché ad un certo punto ho iniziato a fare da sola (lo so il perché, perché ero in lockdown e non potevo fare altro che parlare con me stessa): smettere di lamentarsi. Quando succede una cosa o se vi trovate in una situazione che non vi va bene invece che sbuffare, chiamare amici/partner e sfiancarli con il vostro lamento, lasciate perdere. Non serve assolutamente a niente, vi toglie energie e le toglie a chi vi sta di fronte. Provate a formulare il contraltare positivo e credeteci.
Esempio pratico.
Inutile continuare a ripeterci “che noia stare in zona rossa”. È vero. Ma se mi lamento 18 volte al minuto cosa cambia? Niente.
Di certo con la situazione attuale che sta un po’ pesando su tutti non è facile per nessuno.
Però. Provateci.
Io mi lamentavo un sacco. Forse pensavo di ottenere più attenzione, protezione, aiuto. Una specie di grido d’allarme che sfiancava gli altri e me stessa.
Da quando sono diventata Pollyanna (come mi ha soprannominata nell’ormai celeberrima intervista Zerocalcare) devo ammettere che sto meglio sicuramente con me stessa. Cerco pensieri felici, come direbbe Trilly, scatti emotivi che portino ad uscire da uno status di apatia e insoddisfazione. Anche quando di pensieri felici apparentemente non ce ne sono.
Li cerco dentro di me, quasi mai negli altri.
Imparo come dice Mago Merlino nel romanzo di T.H. White (da cui è stato tratto La spada nella roccia): La cosa migliore che si può fare quando si è tristi è imparare. E non a caso mi sono iscritta ad un master di counseling filosofico (ve ne parlerò, fatemi iniziare).
Non è vera quella frase: non si cambia mai. La verità è che non tutti vogliono cambiare.
Ma ora veniamo al punto.
Alla nostalgia.
Dopo la solitudine che abbiamo abbondantemente analizzato, ora tocca a lei.
Sentimento di chiariscuri, negativo/positivo. Territorio della letteratura per eccellenza.
I grandi romanzi sono fatti della materia di cui è fatta la nostalgia.
Nostalgia di quello che era e quello che si era. Scrittura e riscrittura della vita.
E non stiamo a scomodare Proust che contiene in sé tutte le cose. Basta leggere Ishiguro (Quel che resta del giorno), Eshkol Nevo (Nostalgia), ma anche la mia Miriam Towes di cui vi parlerò che intreccia le sue esperienze di vita con la scrittura. Le ricostruisce, le ridefinisce, gli dà un ordine.
La nostalgia è parola greca come saprà chi ha fatto il classico. Deriva da due parole “algiòs” e “nostos”. Viaggio e dolore.
È la nostalgia di casa che spinge Ulisse a tornare a Itaca, superando il viaggio e le peripezie.
In fin dei conti, senza nostalgia, non avremmo le storie.
Se penso alla parola “nostalgia” mi viene in mente il rimpianto di ciò che non c’è più. Il desiderio di ritorno ma anche di andare.
Ho scoperto che in tedesco esistono due parole che definiscono il concetto di nostalgia.
Oltre al termine nostalgia, che si dice Heimweh “nostalgia di casa”, il tedesco ha una parola specifica anche per il sentimento opposto: Fernweh, “la nostalgia della lontananza”, la voglia di viaggiare, il desiderio tutto umano di lasciare la vita quotidiana e di esplorare il mondo.
Ovviamente quella che ci attanaglia è la seconda (dato che in casa ci stiamo fin troppo). Isolati, confinati, desolati. Nostalgici.
Ma la nostalgia ci distrugge o ci offre una speranza?
Una decina di anni fa il professor Costantine Sedikides dell’Università di Southampton (che non a caso ha pubblicato anche uno studio sulla costruzione del sé come un’autobiografia) ha condotto una serie di ricerche che hanno sottolineato il superpotere positivo della nostalgia.
La nostalgia dà conforto soprattutto nei passaggi più difficili della vita, nelle transizioni da un’età all’altra. In laboratorio ha provato come se l’essere umano ricorda una sensazione piacevole (per esempio la sensazione del caldo se messo nella neve in mutande), può resistere più a lungo alle situazioni spiacevoli.
Ha dimostrato quanto la nostalgia sia servita alla nostra evoluzione e alla nostra sopravvivenza. Vi consiglio di guardarvi questo articolo del NY Times
“Nostalgia makes us a bit more human,” Dr. Sedikides says. He considers the first great nostalgist to be Odysseus, an itinerant who used memories of his family and home to get through hard times, but Dr. Sedikides emphasizes that nostalgia is not the same as homesickness. It’s not just for those away from home, and it’s not a sickness, despite its historical reputation.
“Nostalgic stories often start badly, with some kind of problem, but then they tend to end well, thanks to help from someone close to you,” Dr. Sedikides says. “So you end up with a stronger feeling of belonging and affiliation, and you become more generous toward others.”
Come tutte le cose e -star wars insegna-, anche la nostalgia ha i suoi lati oscuri e i suoi lati più chiari.
Se ci penso in effetti un paio di anni fa con la mia famosa “crisi dei 35” ero tramortita dalla nostalgia.
Da quanto “fosse stato bello quello che c’era prima”. Da quanto “mi sarebbe mancata la giovinezza”. Di quanto “stavo bene in coppia” (la mia convivenza è durata nove mesi come un parto, su 35 anni di vita fate voi le proporzioni)
E questo è il lato oscuro. Crogiolarsi nel ricordo del passato, senza rendersi conto del presente. Paragonare il passato al presente. Crearsi un’età aurea nella testa (quando avevo 16 anni ero felicissimo) e pensare che non tornerà mai.
La verità è che le età auree non esistono. Ce le raccontiamo. Io a 16 anni soffrivo come una scema. A 25 pure. Ogni età, ogni passaggio (come racconta Gail Sheehy in Passages) ha le sue sfide. Quello di cui abbiamo avere nostalgia non è l’idealizzazione di un passato (la famosa età dell’oro di classica memoria “l’aura stirpe di uomini mortali”), ma di cosa ci ha reso quelli che siamo.
Tanto per cambiare lo diceva anche Epicuro (e poi lo fece Lucrezio): non ci sono età dell’oro mitiche a cui non torneremo mai (se ci pensate tendiamo sempre a pensarla così: ah ma come eravamo bravi una volta! Ah ma il mondo come era più interessante!) , ma c’è la possibilità di progresso. Dell’umanità tutta e dei singoli uomini. (se volete approfondire ho trovato questa tesi carina)
Il lato chiaro della nostalgia è trovare la forza nel passato per ridefinire chi siamo, le nostre radici e la nostra identità (come succede al personaggio di Nostalgia di Eshkol Nevo che non riesce a far pace col suo passato senza tornare nella sua casa di infanzia). Porre le basi per definire una speranza nel futuro.
In quel flusso continuo di capitomboli e piroette. Che forse, come direbbe Hillman, fanno tutte parte del disegno della nostra vita e del nostro daimon che ci accompagna.
Il 22 febbraio dell’anno scorso ero su un aereo.
Stavo tornando da una settimana di vacanza a Dubai e il mio pensiero ossessivo era un bicchiere di vino rosso (la solita imperdonabile alcolista… scherzo).
Dopo una settimana in un paese arabo dove è impossibile fare aperitivi per strada il mio desiderio più grande era tornare nella mia città e fiondarmi nella mia enoteca preferita in Corso Genova, un locale storico, che ora è diventato troppo cool per i miei gusti, ma che per lungo tempo ospitava solo me, i miei amici e qualche anziano milanese che giocava a briscola.
Quel bicchiere di vino non lo avrei mai preso.
Arrivata in aeroporto, sul treno che da Malpensa riporta in città mi resi conto che qualcosa stava cambiando.
Di fronte a me sedeva un uomo con una mascherina che si lavava ossessivamente le mani.
Nel sedile dietro al mio, una ragazza ha avuto un colpo di tosse e lo sguardo dell’uomo si è trasformato.
Si è fatto atterrito, spaventato, desideroso di fuga.
Per la prima volta ho sentito il sospetto da parte di un essere umano nei confronti di un altro. Un sentimento primordiale che mi ha fatto paura, un istinto ferino di autoconservazione.
Uno sguardo che non avevo mai visto ma che ci avrebbe accompagnato per mesi e di cui ci saremmo abituati, trasformandoci lentamente.
Mutando la nostra specie in qualcosa che ancora non conosciamo.
Niente sarebbe più tornato come prima.
Milano non sarebbe tornata come prima. Arrivata a Cadorna ho trovato una città spaventata. Arresa di fronte a un destino che nessuno si sarebbe mai aspettato.
Quel pensiero di me così desiderosa della mia città incasinata, che sarebbe scoppiata di eventi, di cose da fare, di un lavoro che ero riuscita a fatica a recuperare, di una dimensione da “sola” che stavo definendo (dopo essere stata lasciata eccetera eccetera) e in cui mi sentivo finalmente più o meno a mio agio (per lo meno: sapevo che grazie al lavoro e grazie alla mia città ce l’avrei fatta) non voglio dimenticarlo.
Non voglio dimenticare il desiderio di vita.
Di incontro.
Di scoperta.
Di buttarsi nella casualità delle cose che accadono e saperle cogliere. O anche non coglierle, ma va bene così è la vita nei suoi alti e nei suoi bassi.
Anche se ora siamo tutti un po’ congelati, stanchi, assuefatti dalle distanze, spaventati da quello che abbiamo intorno e da quello che potrebbe succederci.
Raccogliamo le forze e prendiamo il lato chiaro della nostalgia. Quel sentimento che ci mette in contatto con chi eravamo. Quel sentimento che ci ricorda i “pensieri felici”. Quel sentimento che ci porta a riaprire i diari della nostra adolescenza e dire “ma caspita io ho sempre voluto fare questa cosa qua! Proviamoci!”. Il sentimento che ci porta a scrivere, a riflettere, a creare connessioni tra presente e passato. Accendendo una miccia di speranza per il futuro.
Non per crogiolarci nel ricordo.
Non per rimanere fossilizzati- “stuck” in nostalgia come dice Fran Lebowitz parlando delle nuove generazioni che non producono più cose belle a livello artistico perché non fanno un passo verso il nuovo- .
Ma per essere più consapevoli, di chi siamo stati. Delle cose che ci mancano di più. Per ripulire almeno nelle nostre teste quello che desideriamo davvero da quello che “si desiderava perché si doveva fare”.
(e succederebbe anche nell’arte e sarebbe d’accordo Fran: il passato va conosciuto, le regole anche, per poterle rompere e creare il nuovo, non affogare nella nostalgia degli anni ‘70/’80/’90 e rimanendoci avviluppati).
Io credo che la nostalgia serva per passarci attraverso. In momenti difficili rifugiarsi in epoche note (e lo vediamo nei film, nelle serie tv, nelle saghe, anche nei libri) offre conforto. Ma quel conforto deve essere un punto di partenza per portarci ad una connessione con il presente.
Vale per i cicli artistici e storici e vale anche per noi.
Chi eravamo? Chi siamo ora?
E anche se stiamo stanchi di leggere, pensare, guardare serie tv, recuperiamo un briciolo di forza.
Questa settimana nelle persone che ho incontrato non ho visto sguardi arresi. Quando leggo le cose che scrivete via mail o sui social, non sento persone arrese. Sento persone in trasformazione ma che non vedono l’ora di riprendere in mano la loro vita e farne quello che vogliono.
“Comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stessi e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così : certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perdere tempo per negligenza”
Proviamoci ancora una volta. E cerchiamo di non lamentarci.
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti (Cesare Pavese, La luna e i falò…. Rileggiamo Cesare Pavese!!!!)