Mi è venuto in mente così, stamattina mentre aprivo gli occhi alle 8.15 perché- per fortuna- il nido di Orlando in questi giorni è aperto.
Lo so, mi state invidiando voi che avete bambini e bambine all’infanzia o alla primaria (ormai mi sono allenata a chiamarle così, con i termini contemporanei) che invece hanno le scuole chiuse per settimane.
Anche se dall’incipit sembra, questa non vuole essere una newsletter di lamento della stanchezza perché “quando hai figli le vacanze sono faticose, e via a prendersela con questi poveri pargoli che hanno il solo difetto di essere iperattivi mentre noi- genitori anziani, stressati e affaticati- non vorremmo altro che stare sdraiati su un lettino con un prosecco freddo (ci vuole calma e prosecco freddo è la scritta sulla maglietta che ho regalato alla mia amica Tiziana che ci ha ospitati in questi tre giorni pasquali nella sua bella casa in Romagna).
Per niente.
In realtà in questi due giorni di “riposo”, mi sono riposata.
Certo, ho corso dietro ad Orlando che prima vuole andare sulla bici, poi scendere dalla bici, poi salire sull’altalena, poi sullo scivolo, poi prendere Hulk -ha trovato Hulk nell’uovo di Pasqua!!!- Il suo super eroe preferito... che bimbo fortunato, o manifestante come dice Andrea.. “Orlando sa manifestare i suoi desideri” ecco perché nell’uovo trova Hulk e io invece ci ho sempre trovato orrende collanine, ma è vero erano altri tempi…
Scusate sto divagando. Ora torno in carreggiata, perché la riflessione che voglio fare è molto seria. E anche primaverile. E ha a che fare con la natura, e i larici.
Ma andiamo un passo alla volta.
E torniamo all’altalena.
Dunque. Questo weekend ho corso dietro a Orlando, ma mi rendo conto che ormai è un correre diverso da prima – quando si infilava ogni oggetto in bocca, caracollava, lo chiamavi non rispondeva-
Orlando ha quasi tre anni, sta diventando semi- indipendente. Stare con lui è un piacere. Fa ridere, ti abbraccia, vuole mangiare gelati facendosi i baffi sulla bocca, dice cose buffe, gioca con i cani. Dopo quasi tre anni sto dicendo a me stessa “beh questa cosa della maternità in effetti valeva la pena”.
E mi rilassa, per quel principio che vi avevo già enunciato.
Orlando è il mio maestro zen, il mio Seneca, il mio Ichigo Ichie. Mi fa stare nel momento, mi libera la testa.
Vuole la panna? Bene, è un’emergenza, va risolta. Andiamo a cercare una gelateria. E mi raccomando se vuole il cono è un cono, non azzardarti a prendere una coppetta!! Tu madre egoista che non vuoi fare quella lavatrice in più al sapore di panna e stracciatella… E poi le giostre e poi deve mangiare e via così.
La maternità è il mio allenamento a stare nel momento. Prima di Orlando non ci era mai riuscito nessuno e nulla, a parte forse i romanzi o lo studio che però sono tutto un altro discorso.
Quindi, perché sono così stanca?
Che cosa dice Seneca?
“Dobbiamo dare un taglio netto alle nostre corse qua e là, simili a quelle della maggior parte degli uomini, che vagano tra case, teatri fori: si dichiarano disponibili per faccende altrui, sono sempre dell’atteggiamento di chi ha da fare. Se ne fermi uno all’uscita di casa e gli domandi “Dove vai? Che hai in mente?” ti risponderò “Non lo so, per Ercole, ma incontrerò qualcuno, farò qualcosa”.
Ho aperto il mio librone Bompiani con tutte le opere di Seneca e come una bibliomante qualsiasi mi sono affidata e alle sue parole e ho trovato.. ohibò .. quelle che avete letto lì sopra- poi non ditemi che il caso non esiste….-
Viene dal De tranquillitate animi ed è un’invettiva del grande filosofo romano a chi si affanna troppo. Oggi come 2000 anni fa le cose sono cambiate ben poco. Si corre, ci si affanna. Per Seneca, non ha alcun senso sprecare troppa fatica senza uno scopo ben preciso e soprattutto quando ci si affanna a rincorrere cose non necessarie (per lui l’unica cosa necessaria alla vita di ogni essere umano è il pensiero filosofico).
Sapete quanto ami lo stoicismo, ma in questo caso non so quanto dargli ragione.
Da una parte è vero, ci affanniamo moltissimo, io mi affanno moltissimo e appena mi fermo un secondo la fatica mi cade addosso come macigno e all’improvviso quello che mi pareva fondamentale nel mio loop abitudinario di faccende si svuota.
Perché corro così? Non sarebbe meglio vivere al mare?
Però è anche vero che non siamo dei robot, io non lo so quale sia il mio piano preciso. Il mio deambulare mi ha portata a fare un sacco di cose che mai mi sarei immaginata se avessi pianificato tutto come un esercizio a punti dell’intelligenza artificiale.
La verità è che -e su questo Seneca aveva ragione- non siamo più capaci a coltivare l’ozio.
Io di certo non lo sono. Appena mi “rilasso” mi sento in colpa. Oppure, se supero il senso di colpa inizio a domandarmi: ma siamo sicuri che la vita che mi sono scelta ha un senso? Non sarebbe meglio rifare tutto da capo?
Respiro filosofico
Ma dato che non ho fatto un master in counseling filosofico a caso, provo a rimettere insieme i pezzi.
Nel mio cervello risuona moltissimo la parola “integrazione”. Cioè quel superpotere che dovremmo coltivare nell’imparare a integrare le nostre varie anime (quella che fa la mamma che fa le buche con suo figlio in spiaggia, quella che si veste e trucca e va ad intervistare Steven Soderbergh).
Quel ramo di fico che Sylvia Plath racconta molto bene nella sua Campana di vetro e che in qualche modo ci hanno insegnato non essere possibile (non puoi essere una brava madre e una poetessa!).
Invece si può essere entrambe, se ci si libera da stereotipi e si impara a coltivare un po’ di tranquillità nella propria anima, senza dover vivere tutto con l’angoscia. E questa angoscia, consciamente e soprattutto inconsciamente… stanca.
Mi fermo. Inizio a respirare. Penso al mio concetto di tempo, che, nonostante abbia letto tutti i libri di Virginia Woolf più e più volte (lei che si domandava: ma cosa diamine è il tempo? Noi non corriamo su delle piste, siamo più dei cerchi carichi di passato, frammenti, cose che ci sono successe), quando mi distacco dalla vita più contemplativa e mi butto nella spirale del “faccio, guadagno, produco, performo” mi rende irrimediabilmente simile ai protagonisti di The White Lotus (purtroppo non per il conto in banca…)
Pensiamo al tempo libero come territorio in cui caricare batterie che si scaricano mentre facciamo qualcosa di davvero utile…LAVORARE.
E quindi andiamo in posti (tipo White Lotus, se ce lo possiamo permettere) che ti promettono un una settimana di rimetterti in sesto: ti fanno meditare, rilassare, divertire, ti regalano assaggi di cultura del luogo, il tutto in un’atmosfera protetta e dove tutti obbligatoriamente devono sorridere.
Io in posti come The White Lotus non ci vado, ma perché sono povera.
Io faccio le buche con Orlando con una paletta trovata sulla spiaggia. Quello è stato il mio tempo libero, che non è un tempo superficiale o fluido, non è un tempo che “serve” solo perché dovrebbe renderci migliori quando riprendiamo a fare l’unica cosa che ha davvero senso in questa contemporaneità capitalista e performativa: produrre, fare, guadagnare.
È stato un tempo preziosissimo, mentre la cagnolina della mia amica si tuffava e distruggeva la mia buca e Orlando alzava lo sguardo disperato “No Agathas- si chiama Agatha ma ad Orlando risuonava questa eco spagnoleggiante- quella buca l’ha fatta la MIA MAMMA!” Come se fosse la costruzione ingegneristica più importante del mondo.
Forse è per questo che mi sento così svuotata. Forse è perché la stanchezza ha qualcosa di direttamente proporzionale con il mio lanciare il mio baricentro troppo verso il fuori, e questo “fuori” ha molto a che fare con il mio lavoro e con tutte le pressioni che in questa fase della vita nonostante ormai sia “adulta” mi sento addosso e ho paura che mi spezzino i rami.
Il larice millenario
A questo punto arriviamo al larice -che vi dicevo all’inizio di questo interminabile flusso di coscienza-, che è un albero che mi ha sempre affascinata perché è l’unica conifera al mondo che fa una cosa che le altre non fanno: perde le foglie ogni autunno.
Io l’ho scoperto perché in montagna dove vado io da anni e anni- Chiesa in Valmalenco- esiste un albero che ha più di mille anni.
Il larice millenario. Che sta lì, gli studiosi dicono dal 1007
E come ha fatto a stare lì? Perché a differenza di pini e abeti non si ostina ad essere un sempreverde. In autunno, perde gli aghi per farli rinascere rigogliosi in primavera. E così riesce a sopravvivere alle intemperie, a raggiungere altitudini maggiori e non si spezza quando la neve cade copiosa sui suoi rami.
E quindi se ci deve essere una conclusione a tutto questo sproloquio, quello che mi sento di dire, care amiche e amici miei, è che dobbiamo smetterla di voler essere sempreverdi.
Che la stanchezza esiste, accogliamola!
Che ogni tanto fermarsi non per “ricaricarci” ma solo per “vivere”, ha un senso molto più proficuo del partecipare ai tornei di calcetto dei villaggi turistici (ma se quello vi diverte… va benissimo!)
Che il tempo che ci è dato è un tempo che si affastella. Siamo presente, ma siamo anche passato e saremo futuro. E finché questo tempo c’è, va assaporato più che si può, senza pensare costantemente a quello che succederà dopo.
Che fare le buche in spiaggia è divertente, e non me lo ricordavo più.
Proviamo ad essere larici, facciamo cadere un po’ di aghi rinsecchiti, per farne germogliare di nuovi.
Buona primavera!