Storia del nuovo cognome
Il limite del mio mondo è il limite del mio linguaggio.
Ludwig Wittgenstein
Care e cari,
bentrovati anche questa settimana e buon 1 maggio, che detto di domenica fa in effetti un po’ sorridere, ma direi che Aprile è stato piuttosto clemente in fatto di ferie e ponti.
Io non ho fatto nemmeno un giorno di vacanza perché tra fine lavoro in tv (prima della “maternità”) e fine prossimo libro sono stata piuttosto occupata.
Ma non mi lamento.
Questo mese numero 9 della gravidanza mi sta mettendo un po’ alla prova sia in termini fisici (stanchezza, mal di schiena, pancia pesantissima) che di umore (sono tornate le altalene umorali)… un po’ forse inizio a sentire l’arrivo di una nuova vita, che non è solo quella di mio figlio ma anche la mia.
Stando in quell’intercapedine tra il “non vedo l’ora!” e “sono terrorizzata”. Ma è un tema a cui ancora non so mettere i confini… non riesco bene a definirlo. Cerco di ascoltarmi “vivere” – e di ascoltare lui- e vedere come andrà.
Detto questo. Basta parlare di me!
Questa settimana voglio parlarvi di cognomi, di parole per dire le cose (perché è importante averle), del ruolo dei libri, della filosofia e delle neuroscienze.
Ma prima di iniziare vi ricordo i nostri meravigliosi abbonamenti!
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Provo a rispondere alle domande che so che mi farete (ovviamente se ne avete altre rispondetemi a questa mail o scrivetemi in DM):
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E vi ricordo anche che sabato prossimo, 7 Maggio ci sarà l’ultimo appuntamento delle Flaneuse prima del mio Delivery (il mio parto…) Si tratta di un appuntamento speciale aperto a tutti con contributo di 3 euro (se non si è iscritti all’abbonamento GOLD).
Verrà offerto al termine un aperitivo dalla casa editrice alla RED Feltrinelli di Gae Aulenti.
Passeggeremo per l’Isola in compagnia di Gian Andrea Cerone autore di Le notti senza sonno (Guanda Noir). che è un noir pazzesco ambientato a Milano.
Sarà molto divertente raccontare la Milano di ieri e di oggi con lui.
Vi lascio il link per iscrivervi
Venite numerose e numerosi così ci salutiamo prima che arrivi il mio Baby Cuore Blu (poi ci saluteremo anche con lui).
E ora veniamo a noi!
Partiamo da una domanda di morettiana memoria e sempre attuale:
Perché le parole sono importati?
Perché dire le cose può cambiare la realtà?
Perché dare due cognomi o solo quello della mamma cambia la percezione dell’identità del bambino? Del ruolo dei due genitori nella famiglia? Perché è un fatto storico da non sottovalutare per niente?
Questa settimana in seguito alla decisione della Consulta che ha decretato lo stop dell’automatismo del cognome del padre al figlio ovviamente si (e giustamente) si è stimolato il dibattito: è giusto dare il nome della mamma? Cosa cambia davvero?
Le posizioni in generale sono due:
1. Evviva, finalmente la linea materna non è più nascosta e silenziosa dopo secoli e secoli di patriarcato
2. Ma chissenefrega, non sono queste le cose importanti. Le cose importanti sono la gestione della maternità, le opportunità lavorative, la possibilità di conciliare vita da mamma e lavoro che in Italia pare impossibile, la parità stipendi etc
Io, non so voi, ho passato una settimana a sentire costantemente le stesse cose, sia da parte degli uomini che delle donne (non è questione di genere): ma non è certo una cosa rivelante, ma si tratta solo di un cognome, le cose importanti sono altre, eccetera eccetera eccetera.
È vero. Le questioni materiali sono certamente molto molto “importanti”… ma siamo così sicuri che “dire le cose” non possa stimolare un mutamento della realtà?
Che finalmente rendere possibile alle mamme trasmettere il proprio cognome ai figli non sia un atto rivoluzionario nel modo che abbiamo avuto di concepire la famiglia, il ruolo della mamma fino ad ora?
Io, con Andrea- il papà del mio bimbo-, avevamo già deciso di dare a Baby Cuore Blu due cognomi. Il suo e il mio. È stata una scelta di comune accordo che ci sembrava opportuna se non necessaria.
Io mi porto in pancia il mio cuoricione blu per 9 mesi tra nausee, mal di schiena, tunnel carpali e poi? Nemmeno il cognome??!!!
A parte gli scherzi.
Il tema del cognome è una questione alla quale penso da sempre. Non so perché, ma ci sono dei temi che ti coinvolgono quando sei bambina
“Ma perché si prende solo il cognome del papà?”
“Perché le famiglie prendono i patronimici, in Italia è così”
“Ma perché??”
“Perché sì”
Tagliava corto mia madre.
Mi pareva un’ingiustizia senza senso, che stimolava in me quella rabbia inconsapevole che solo i bambini sanno provare.
Ora che ho un maschietto nella pancia, mi faceva effetto (e l’ha notato anche Andrea) quando il “bambino” è roba tua mentre è nella pancia (le ecografie sono “Perego”, gli esami, le visite, le responsabilità) ma poi… pluff: nasce e diventa di denominazione del papà. La mamma ha svolto il suo compito di generatrice di vita, grazie e arrivederci.
È bellissimo l’articolo di Elena Stancanelli su Repubblica “Noi siamo stati i figli dei nostri padri anche quando non gli somigliavamo affatto”.
Io penso sempre: se la me stessa bambina fosse cresciuta in un mondo in cui i suoi compagni delle elementari avessero avuto il cognome della madre insieme a quello del papà senza gerarchia né importanza, come sarebbe cambiata?
Sarebbe cambiata di certo, nell’interpretare se stessa, il ruolo di sua mamma e i pesi della famiglia.
È interessante vedere quanto le nuove generazioni siano sensibile a questo tema. Pensate a Brooklyn Beckham che ha voluto aggiungere al suo cognome quello della moglie (tra l’altro in questo gioco di nomi curioso in cui lei si chiama Nicola che a noi suona come nome maschile, ma chissenefrega delle etichette di genere).
Ad ufficializzare il nome è stato proprio il figlio di David e Victoria Beckham: ora sarà conosciuto come Brooklyn Joseph Peltz Beckham, mentre sua moglie sarà Nicola Peltz Beckham. Il tutto è stato messo anche sui profili ufficiali Instagram: “Sono così felice che tu sia un Peltz“, ha scritto Nicola, sostenendo la scelta del marito. Naturalmente, Brooklyn ha anche cambiato nome sul social.
La nostra identità è racchiusa – anche- nel nome che abbiamo.
Ecco perché è così tremendamente difficile dare un nome ad un bambino.
Dare i nomi alle cose, nominarle le fa esistere nel nostro sistema cognitivo.
“Una delle prime cose che succedono quando nasciamo- mi ha detto la sociolinguista Vera Gheno in un’intervista che le ho fatto per Xstyle (il programma di mediaset per cui collaboro sul tema delle parole)- è essere nominati. L’atto di nominazione ci fa esistere nella società”
Ed esistere nella società col cognome della mamma (con o senza quello del papà) dà valore alla linea materna. La fa esistere.
Il mio bambino esisterà nella società con il mio nome e il nome del suo papà.
È vero, possono sembrare minuzie e sciocchezze, ma ne siamo così convinti?
Quanto il linguaggio e il nome delle cose (e delle persone) può cambiare la realtà??
Ludwing Wittgenstein è il filosofo che tra gli anni 20 e 50 del Novecento sviluppò una teoria del linguaggio secondo la quale il linguaggio è ciò che definisce il nostro mondo di riferimento.
I limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo è una delle sue affermazioni più famose.
Cioè il mio mondo finisce laddove non riesco a nominarlo.
In sostanza, più parole abbiamo per dire le cose e più conosciamo i significati delle parole, più il nostro mondo di comprensione si fa grande.
Sia fuori che dentro di noi.
Se nominiamo qualcuno con il nome del papà e della mamma di certo avremo una visione più complessa e completa della sua realtà.
Mi ha fatto molto riflettere un DM che mi è arrivato da una follower in questi giorni
“Ti porto la mia esperienza: sono figlia di una venezuelana e di un francese. Ho i cognomi di entrambi i genitori e i cognomi parlano già prima di me, sono la mia identità. Per me i miei cognomi sono motivo di orgoglio perché portano con sé le generazioni precedenti”
I nomi e i cognomi sono la nostra storia.
Il nostro “essere nel mondo”.
Non sono per niente qualcosa di “non importante”
Poi quale cognome tramandare sarà il bambino a sceglierlo (se ne tramanda uno solo tranquilli non ci ritroveremo tra un paio di generazioni con 18 cognomi) e certo lì potrebbero sorgere problemi di altra natura.
Ma per ora io gioirei (e gioisco dovendo partorire a breve) che il ruolo delle mamme all’interno della famiglia e nei confronti dei propri figli venga riconosciuto.
Non solo formalmente ma con un atto di definizione e dunque interpretazione della realtà: dire le cose.
Mia nonna se n’è andata un anno fa.
Io avrei voluto avere non solo nel mio sangue ma anche nel mio nome il suo ricordo.
Le parole per dirlo
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