Tirare le fila
Care e cari,
come state?
Come sempre è un piacere ritrovarvi per questo appuntamento settimanale in cui ci raccontiamo, confrontiamo e in cui spero di consigliarvi cose che possano solleticarvi e interessarvi.
IN QUESTA NEWSLETTER TROVERAI
- Gli appuntamenti della settimana (vi svelo le prossime passeggiate!!!)
- I libri sul comodino
- Intervista esclusiva a Francesca Giannone autrice del bellissimo La portalettere
- Cineflaneuse con Aftersun
Questa è stata una settimana densa. Di pensieri, parole e riflessioni.
Il caso drammatico al Pertini ha lasciato tutte (soprattutto le neo mamme ma non solo) senza parole.
Non voglio tornare sull’argomento. L’ho già fatto nelle stories, in un post e in questo video dove ho detto tutto quello che mi sentivo di dire. Ci sono stati tanti articoli e una mobilitazione social che finalmente ha tolto il coperchio su quello che non si dice e, se diceva, non si veniva abbastanza ascoltate.
Ora è il tempo – almeno per me- del silenzio rispettoso rispetto alla tragedia di quella ragazza.
E per noi – come dico nel video- di perdonarci qualsiasi errore, senso di colpa, paura ci abbia travolte in quei primissimi giorni miracolosi, terribili e stravolgenti in cui sei per la prima volta mamma.
QUELLO CHE LE MAMME NON DICONO
Partiamo dalle basi.
Io amo mio figlio, lo amo visceralmente e inspiegabilmente.
Lo amo anche se da sette mesi a questa parte vivo come in una specie di cubo trasparente buttato nel fondo di una piscina: riesci a respirare, ma ti pare costantemente di andare a sbattere contro le pareti trasparenti. E intorno c’è solo acqua.
Lo amo anche se, se mi chiedessero “Qual è il tuo desiderio più grande?” risponderei “Stare senza di lui per una settimana”.
E non significa semplicemente “stare senza di lui.” Significa ritrovarmi in una dimensione parallela come succede nei film di fantascienza in cui lui non esiste e la me che quella notte non è rimasta incinta, continua a fare aperitivi, uscire a cena, indossare abiti taglia quaranta, ma soprattutto riesce a dormire.
E per dormire non è sufficiente “stare lontana da tuo figlio”. Per dormire devi presupporre che lui non sia mai esistito e che tu non sia mai diventata madre. Il suo pensiero non deve sfiorare la tua testa, ormai irrimediabilmente settata alla cura, all’iper controllo e all’ansia.
Del sonno dei neonati non si parla abbastanza. O almeno, sono notizie che non arrivano chiare e limpide a chi non è genitore.
Quando non sei genitore interpreti quei “eh non si dorme tanto” detti da papà coi capelli arruffati e le facce che a te paiono radiose, come un piccolo disturbo. Niente di grave di fronte alla meraviglia dell’avere il tuo pargoletto tra le tue braccia.
Invece poi diventi mamma e allora capisci. Capisci che era tutto un inganno, una montatura. Un grande segreto che da millenni i genitori tramandano silenziosamente generazione dopo generazione: quando nasce un bambino si smette di dormire.
Le domeniche mattina a poltrire nel letto aspettando un cappuccino e una briosche? Scompaiono, arrivederci, ci rivediamo tra vent’anni.
Il beato distendersi nel letto dopo una giornata di lavoro, corse, rotture di scatole varie ed eventuali? Caput. Quando torni a casa comincia la vera lotta.
Inizia tutto con il frugoletto che urla e che vuole essere nutrito ogni mezz’ora, un’ora, quando sono due gioisci come se nemmeno avessi vinto tu i cento metri alle Olimpiadi.
Ti dicono “sono i primi quaranta giorni, poi passa”.
Ma poi questi benedetti quaranta giorni passano e tu- beata innocenza- speri che cambi qualcosa.
Invece non cambia niente.
È vero le poppate si diradano, ma poi arrivano le coliche, dopo ancora i dentini, le prime malattie, il raffreddore (che ai bambini non passa MAI) e quelle che scopri chiamarsi le “regressioni del sonno”, termine per te fino a quel momento sconosciuto ma che diventa improvvisamente il tuo maggiore incubo.
Se apro il mio whatsapp tra i primi numeri che compaiono c’è quello di Tata Elena, una tata del sonno piuttosto famosa sui social che offre consulenze private o di gruppo per raggiungere un solo obiettivo: fare addormentare un essere il cui addormentamento è insieme il tuo più grande mistero e la tua via di libertà.
“Ciao Elena, anche oggi notte in bianco”
Le scrivo io alle sei del mattino, con i capelli sfatti, il pigiama di pile ricoperto dai rigurgiti, le occhiaie per terra e il mio bimbo che piange ininterrottamente tra le mie braccia.
Lei ti manda un vocale con voce serafica e tranquillizzante.
“Mamma, non ti devi preoccupare, è normale. Ora fai un bel respiro e pensa che va tutto bene”.
E inizia ad anellare consigli su orari di pisolini, fasce di veglia, metodi di addormentamento che nemmeno fosse un allenamento dei marines.
Respirare è la parola che ti senti più ripetere da quando diventi mamma.
“Signora respiri” ti dicono quando capisci che stai per partorire.
“Respira” ti dice tua madre al tuo primo crollo psicologico quando sei tornata a casa dall’ospedale e, come se fosse un’epifania in un romanzo di Virginia Woolf, ti rendi conto che la tua vita sarà da quel momento in poi inevitabilmente stravolta.
La tua identità è sospesa, nascosta dai chili della gravidanza – che eri convinta, almeno così avevi capito dalle stories delle influencer, che sarebbero scomparsi immediatamente dopo il parto e che invece rimangono lì, una pancia gonfia e morbida, con il dolore dei punti del cesareo-, un essere che non riesci a definire – è un bebè, ma anche uno strano animaletto che trova riparo solo attaccandosi alla tua tetta. Tutte le certezze che avevi faticosamente raggiunto in anni di psicoterapia, mindfulness, training autogeno all’autoconsapevolezza scompaiono.
Sei una neo-mamma disperata che non sa cosa fare, dire, non riesce manco più a muoversi.
Io ho camminato per mesi come se avessi ancora il bambino in grembo. Mi guardavo nelle vetrine e vedevo quella versione di una me riversata su se stessa che ora a ripensarci mi fa tenerezza, in quel momento quell’immagine era solo fonte di disperazione.
Forse ti dicono di respirare perché è l’unica certezza che ti rimane. Un baluardo alla vita, l’unico tramite con quello che c’era prima.
Ricordo con lucidità una sera in cui, Orlando avrà avuto qualche giorno, decido di fare la nostra prima passeggiata in carrozzina – che ora si chiama navicella, come se offrire attributi spaziali cambiasse davvero l’essenza delle cose.
Abitavo ancora nella casa che mi aveva accolta come giovane giornalista single e piena di aspettative. Un loft senza porte e pieno di luce con le scale in ferro battuto.
Perfetto per una rivista di arredamento. Una tragedia se hai un bambino piccolo.
La luce non lo fa dormire, i rumori lo agitano, le scale sono il PERICOLO.
In poche parole vivevo in un attentato alla vita di mio figlio.
Insomma. Decido di fare questa passeggiata da sola, per la prima volta senza Andrea, il mio compagno, che in quel momento non ricordo cosa avesse da fare.
Mi dico: un po’ di movimento mi farà bene.
È giugno, fa caldo, il naviglio di Milano pullula di ragazzi che finiscono le scuole, hipster rallegrati dal sole, giovani social media manager pronti per l’aperitivo.
Mamme che passeggiano sorridenti con i loro passeggini.
Tra quelle mamme ci sarei stata anche io finalmente!
Portando l’infante in bagno con me riesco in qualche modo a darmi una riassettata dopo giorni di ospedali, notti insonni, pannoloni post-parto (sui pannoloni post-parto dedicherò un capitolo a parte). Addirittura riesco a mettermi la matita nera sugli occhi.
Sono pronta. Il mio bebè sembra tranquillo.
Prendo Marcello, il cane, che zampetta finalmente felice di uscire di casa.
Ma non faccio in tempo a girare l’angolo che Orlando inizia a urlare. È disperato, paonazzo, si contorce nel suo abitacolo senza sosta. Non valgono a nulla i miei tentativi di rassicurazione, l’allungare il passo, cantare Rossetto e cioccolato a squarcia gola in mezzo al naviglio.
Alcuni passanti mi guardano con preoccupazione, altri –probabilmente perché ci sono passati- con compassione. Mi fermo, lego il cane alla carrozzina, lo prendo in braccio. Urla ancora più dirigendosi verso il mio capezzolo.
Non posso allattare in pubblico, non sono ancora capace, i miei capezzoli sono due tizzoni incandescenti e doloranti.
Mi passano davanti le decine di immagini che ho visto ai corsi preparto (ne ho fatti addirittura più di uno, non sono serviti a niente) e nei post di Instagram delle consulenti di allattamento: mamme sorridenti che prendono i loro bebè e con eleganza si abbassano la maglietta e li attaccano al seno, senza mai perdere la serenità.
Io quella cosa non la so ancora fare.
Non la voglio fare, non ci riesco.
Ho paura.
Inizio a piangere incurante del fatto che sia in mezzo una strada. Corro verso casa con Marcello ormai slegato che mi insegue preoccupato.
Riesco a raggiungere la meta. Mi chiudo dentro casa e capisco che tutto quello che ci hanno raccontato è un’enorme montatura.
Non c’è niente di vero in tutte le cose che fino a quel momento ho dato per verità incontrovertibili.
Diventare mamma è una gioia
L’allattamento viene naturale
Ti sentirai immediatamente appagata e felice
La verità è che la maternità come tutte le cose che hanno un valore nella vita è una questione ambigua: sta nell’incudine tra il meraviglioso e il terribile.
La verità è che esiste una coltre omertosa nei racconti che vengono tramandati dalle mamme e dalle nonne- forse il terrore è che se ci raccontassimo la verità ci estingueremmo- .
La verità è che non si è mai davvero preparati.
La verità è…. Che lo capisci dopo.
Forse quando è troppo tardi.
LA MERAVIGLIA DI ALDA MERINI
Ieri c’è stata la prima passeggiata del 2023 dedicata alla straordinaria poetessa del Naviglio, Alda Merini.
Un nome che suscita sempre grande attenzione e interesse. Una donna che per prima, scandalosa, ribelle, pazza come lei stessa si definiva, ha rivoluzionato la poesia.
Non seguendo scuole, canoni, mode, ma portando sulle pagine solo se stessa.
Vi ho raccontato la sua vita tra la guerra, amori impossibili, il senso di inadeguatezza di essere moglie e madre e poi gli internamenti al Paolo Pini, il manicomio di Milano. Undici lunghi anni di ricoveri, orrori, “vuoto d’amore” che l’hanno cambiata, segnata, resa quella che è stata.
Una donna rock, che ha mollato gli ormeggi, che nella vita ha cercato solo due cose: l’amore e la poesia.
Che per lei erano la stessa cosa.
“Io ho fatto una vita esattamente contro la mia volontà, e lì è andata persa tutta la mia spiritualità. E poi, come donna di casa non valevo un tubo, come madre nemmeno, anche se ho sempre sentito la maternità, sono una madre nata, però non una madre che spolvera, che sta attenta che il bambino non sporchi, non si faccia una macchia: sono una madre morale, mentale, custode dei figli”.
Il manicomio è una grande cassa
con atmosfere di suono
e il delirio diventa specie,
l’anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai
luogo maledetto
sopra cui tu ricevi
le tavole di una legge
agli uomini sconosciuta
Amai teneramente dei dolcissimi amanti
Senza che essi sapessero mai nulla.
E su questi intessei tele di ragno
e fui preda della mia stessa materia.
In me l’anima c’era della meretrice
della santa della sanguinaria e dell’ipocrita.
Molti diedero al mio modo di vivere un nome
e fui soltanto una isterica.
Abbiamo visitato lo spazio Alda Merini in cui è ricostruita la mitica stanza della poetessa. Il suo letto, i numeri di telefono scritti con il rossetto sulle pareti, i suoi abiti originali, il suo telefono, le fotografie.
Nel pomeriggio abbiamo visitato con la guida Lorenzo la mostra di Max Ernst a Palazzo Reale.
Tra i maggiori artisti del ‘900, dadaista, surrealista, indagatore dell’inconscio, sogno e psicanalisi, Max Ernst ci ha stupite con le sue tele enigmantiche e sperimentali. A questo link trovate il prezioso catalogo edito da Electa. Ottimo regalo o autoregalo per chi ama l’arte, il pensiero, l’intelligenza.
NUOVI APPUNTAMENTI
Finalmente iniziamo la challenge dedicata a Colette che sabato 28 gennaio ha compiuto 150 anni.
Abbiamo dovuto ritardare gli appuntamenti per la difficoltà di reperire il libro, ma finalmente ci siamo!
Anche lei è stata una donna rivoluzionaria e ribelle, allergica alle etichette, trasformista e trasformatrice.
Ha scritto- quasi- sempre d’amore, ma lo ha fatto per i tempi che viveva in maniera rivoluzionaria.
La vagabonda è uno dei suoi primi romanzi, scritto nel 1910. Lei ci butta dentro la sua vita e la rielabora e costruisce la storia di una donna che capisce la non necessità di un uomo per definirsi. Che abbraccia la sua avventura, ci si butta a capofitto, sfidando tabù e convenzioni sociali.
Raccontando come anche una donna SOLA può trovare la sua forma di felicità.
Vi aspetto in diretta su Instagram Lunedì 30 alle 21 e poi su Zoom (una volta che avrete finito di leggere) per ascoltare le vostre riflessioni sul libro il 23 febbraio!
ATTENZIONE! PER LE ISCRITTE AL CLUB GOLD CI SARA’ PRESTO L’OPPORTUNITA’ DI INCONTRARE IN MANIERA ESCLUSIVA LO SCRITTORE PAOLO GIORDANO
E’ RICHIESTO UN UNICO REQUISITO: AVER LETTO IL SUO ULTIMO ROMANZO “TASMANIA”. Potete acquistarlo a questo link
Chi vuole prenotarsi per la chiacchiera con lui (che sarà molto probabilmente il 21 febbraio) mi scriva via mail a flaneuse.milano@gmail.com
PASSEGGIATA FLANEUSE CON GIAN ANDREA CERONE
E’ stata già un successo l’anno scorso. Quest’anno con la pubblicazione del suo secondo libro IL TRATTAMENTO DEL SILENZIO (che potete acquistare a questo link in uscita il 31 gennaio, dedicato al commissario Mandelli (che io ho già letto ed è una bomba!!!), il giallista ligure milanese d’adozione non poteva che tornare a presentarlo passeggiando con le flaneuse.
Il 1 febbraio su Facebook ci sarà lo incontrerò online su LibLive (così avrete qualche anticipazione sul libro… senza spoiler!!!!!)
La passeggiata è programmata per il 18 febbraio, presto vi darò tutte le indicazioni.
Priorità a chi è iscritto al club GOLD FLANEUSE.
PARLIAMO DI VIRGINIA WOOLF
La prossima settimana iniziano i miei incontri alla Libreria Virginia e Co. a Monza dedicati a Virginia Woolf
Parleremo di libertà, amore e vocazione.
Ecco tutte le info: Che cosa lega la più grande autrice del modernismo inglese con la filosofia del Wabi Sabi giapponese?
Perché leggere Virginia Woolf è quasi equiparabile a delle sedute di mindfulness?
Come mai Virginia continua ad essere la scrittrice più citata da chiunque si occupi di femminismo?
Per quale motivo stilisti contemporanei come il direttore artistico di Fendi continuano a riferirsi a lei come fonte di ispirazione?
Perché leggerla oggi può offrirci risposte in un presente complicato?
Virginia Woolf è stata antesignana di stili di vita, di modi di vestire, di essere e pensare. La prima a rendersi conto che i “generi” non definiscono la qualità degli esseri umani.
Che il tempo esiste non in una linea che distingue il passato dal presente, ma nella misura in cui noi stessi lo percepiamo. Che l’amore è fluido, confuso e che non c’entra nulla con le istituzioni, il matrimonio, il progetto di vita. Che siamo esseri che appartengono alla natura e che da essa deriviamo significato.
Che il valore che diamo alla nostra esistenza possiamo deciderlo da soli nel momento in cui ci concentriamo, davvero, sui nostri desideri. Perché le emozioni sono ciò che ci definisce.
Scrittrice, pensatrice, femminista, amante dei cani, della vita, della natura quanto della sua città, Londra.
Su Virginia Wollf si sono scritte biografie, saggi critici, analisi che hanno messo al centro la sua straordinaria opera letteraria.
Ma quello che non si dice – quasi mai- è che Virginia è stata una maestra di vita. Non perché ne fosse realmente consapevole. Non perché si sia mai atteggiata da guru (anzi pensava di non capirci proprio nulla nella vita). Ma con ciò che ha fatto, scritto e pensato ha indicato una via che ancora oggi può essere percorsa. Per sentirci meno soli, per trovare una bussola, per confrontarci con tempi incerti e complicati.
Lei insieme a molte altre scrittrici, filosofe, attrici e pensatrici che si legano al suo pensiero possono rappresentare una strada.
Qualcuno ha parlato di “via dell’artista”. Virginia ci offre, se viene letta con attenzione, una via di esistenza.
Gli incontri saranno il 4 e 25 febbraio e il 4 marzo dalle 10.30 alle 12
Per info e per iscrivervi scrivete al numero: 3479157450
#FLANEUSEINTERVISTA!
Da questa settimana iniziano le interviste esclusive della nostra newsletter. Per questa volta è disponibile per tutti. Dalla prossima settimana se vorrai leggere le mie interviste, ti consiglio di passare ad una delle formule di abbonamento.
Per questo primo appuntamento ho incontrato Francesca Giannone, autrice del bellissimo La portalettere (potete acquistare il libro a questo link ) un romanzo che ci fa viaggiare nel passato nella storia di Anna, una ragazza di 27 anni che dal nord si trasferisce in un paesino del Salento e diventa la prima portalettere.
Siamo negli anni ’30 del ‘900, si affaccia (e poi scoppierà) la Seconda Guerra Mondiale.
La Portalettere è un romanzo che mi ha conquistata perché non solo si basa su una ricostruzione storica scrupolosa, ma racconta una storia di ribellione gentile che passa attraverso le parole.
Parole che viaggiano sulla carta, parole scritte sui romanzi che diventano ispirazione e stimolo, per Anna, di emanciparsi e diventare se stessa.
C’è anche una meravigliosa storia d’amore, che non vi svelo. Ma vi invito a leggere il romanzo e l’intervista a questa autrice che al suo primo libro ha sbaragliato le classifiche di vendita, con un unico segreto: una storia sincera, ben costruita e scritta con grazia.
Il cuore di Anna pulsa nell’anima del lettore e fa fatica ad andare via.
Come è nato il personaggio di Anna?
Mi sono ispirata a una persona reale, alla storia della mia bisnonna e ai suoi tratti caratteriali. Anna è diventata un personaggio a tutti gli effetti quando mi sono spostata appena un po’ dalla figura storica, mescolando alle sue caratteristiche veritiere quelle immaginarie, che le ho cucito addosso con brandelli di ciò che sono e di ciò che, certe volte, vorrei essere.
Il romanzo è ambientato in gran parte nella prima metà del '900 in Salento, che tipo di ricerche hai fatto?
Sono partita dal materiale che ho trovato nel cassetto di famiglia: non solo il biglietto da visita, ma anche carteggi, foto in bianco e nero, cartoline con messaggi d’amore, documenti, pagine di diario. Da lì ho poi zumato indietro per capire il contesto storico in cui i miei bisnonni vivevano, e ho ricostruito via via l’affresco tramite letture, testimonianze e immagini dell’epoca. Ho attinto però anche ai miei ricordi d’infanzia, soprattutto per raccontare le dinamiche sociali e relazionali di un piccolo paese del profondo sud, quello in cui sono cresciuta.
Perché la storia di Anna parla alle ragazze di oggi?
Anna ha soltanto 27 anni, all’inizio del romanzo. È una giovane donna che sta cercando il proprio posto nel mondo. Vuole esistere in quanto Anna, innanzitutto, e non come “moglie di” o “madre di”. Per lei, prima di ogni cosa, conta la relazione con se stessa. Se ne prende cura e non prescinde dall’amor proprio, quello che – al contrario dell’egoismo o del narcisismo patologico – include sia l’iosia il tu. Sa che l’amore sincero verso l’altro, che sia il marito o il figlio, passa inesorabilmente dal rispetto e dall’amore per sé.
I libri e le parole hanno un ruolo importante nell'evoluzione della storia... che valore hanno i libri per lei e per te? Come hai scelto i romanzi che diventano protagonisti del libro?
Siamo i libri che abbiamo letto, i film che abbiamo visto e, in generale, tutta l’arte che abbiamo vissuto. Dico sempre che potrei spogliarmi di tutto, ma non dei miei libri: nei miei vari traslochi (e non sono stati pochi!), l’unico bagaglio che negli anni ho continuato a portare con me è stata la mia biblioteca personale. Decine e decine di scatoloni pesantissimi. Anche Anna, dalla sua Liguria, arriva in Salento con una scatola che, insieme a pochi oggetti personali, contiene i suoi libri del cuore, quelli da cui proprio non riesce a separarsi: c’è il suo amato Flaubert (che legge rigorosamente in francese), e poi Anna Karenina, Orgoglio e pregiudizio, Cime tempestose, Jane Eyre. A questi si aggiungeranno i romanzi che leggerà insieme ad Antonio, suo cognato. I due hanno una specie di rito: a turno scelgono il libro da leggere, nello stesso momento, e alla fine della lettura si scambiano i libri con le frasi che ciascuno ha sottolineato. “Ti darò tutto quello che nei libri hai sempre sottolineato”, recita una bellissima frase d’amore. E proprio delle parole evidenziate, ma celate tra le pagine, vivrà il legame profondissimo tra Anna e Antonio.
La ribellione (e la presa di coscienza di noi stesse) può passare attraverso la letteratura?
Assolutamente sì. Perlomeno, per me è stato così. Da un bel po’ di anni, ormai, prediligo romanzi scritti da donne. Ascoltare le loro voci, sbirciare il mondo attraverso il loro sguardo, mi ha aiutato a indirizzare il mio nella direzione che mi fa sentire libera. E consapevole di appartenere.
L'amore è un altro grande tema del romanzo... che tipi di amore vengono raccontati e qual è stato per te da scrittrice il più appassionante da attraversare.
C’è innanzitutto l’amor proprio, cui accennavo prima, che credo sia l’unico amore davvero salvifico. E poi c’è l’amore a due nelle sue varie forme, quello che nutre e pacifica, quello non corrisposto che mortifica, quello dipendente, quello che avvelena e ci priva di noi stessi, quello contrastato, quello fraterno che si fa scudo e cemento. E infine c’è l’amore taciuto e passionale, quello da cui Antonio si lascia divorare. Senza dubbio è il suo l’amore che, a raccontarlo, mi ha commosso fino alle lacrime.
Anna è una portalettere, "portando le lettere" cuce storie, intesse destini dei personaggi. Sullo sfondo c'è un'Italia lontana in cui le comunicazioni passavano attraverso l'attesa. Oggi - con i social media, le mail etc etc- cosa è cambiato? Chi sono secondo te i nuovi "portalettere"?
Credo che siano i social stessi. Tramite essi consegniamo i nostri messaggi in prima persona, istantaneamente e senza affidatari, e ci aspettiamo che le risposte dall’altra parte siano altrettanto repentine e immediate. Il concetto di attesa si è perso, irrimediabilmente. Ed è un peccato, perché aspettare ci aiuta a dare senso e significato, a prenderci il tempo che realmente serve, a guardare alla nostra storia da una distanza sana, e funzionale.
Che cosa ti ha insegnato la storia di Anna?
Che mai e poi mai bisogna dare retta a chi cerca di tarparci le ali, a chi ci dice “non ce la puoi fare”, “non fa per te”, “è inutile che ci provi”. Che è fondamentale continuare a puntare su di sé, anche quando nessun altro lo fa.
Ultime domande su di te: quando e come hai scelto di diventare scrittrice e se vuoi dare un consiglio a chi, come te, vuole fare della scrittura un mestiere
Credo che non ci siano percorsi o consigli validi per tutti. E vale anche per quello che sto per dare io. Per scrivere serve sì maneggiare una buona prosa, serve sì saper usare gli strumenti narrativi che tengono in piedi la struttura di un romanzo, ma più di tutto, secondo me, conta amare senza riserve i propri personaggi. Il che significa osservarli e raccontarli nella loro umanità, con tutte le fragilità e contraddizioni che li rendono credibili e complessi, e farlo senza alcun giudizio. Succede quando siamo pronti a guardare noi stessi con quella stessa tenerezza, quando impariamo ad accettare che siamo fallibili e fragili, quando ci perdoniamo per i nostri errori. Anche per scrivere, come per amare gli altri, bisogna passare prima dal rapporto con se stessi.
Andando sul tuo sito si scopre che sei anche una bravissima pittrice, come coniughi queste tue due anime?
In verità l’una alimenta l’altra, e viceversa. Anche la pittura è una forma di narrazione, soltanto che si utilizzano altri mezzi. Durante la scrittura del romanzo, quando certi passaggi narrativi o scene particolarmente complicate mi hanno posto domande che mi hanno mandato in crisi, è bastato spegnere il computer e trascorrere ore a dipingere, per trovare le risposte che cercavo.
LIBRI SUL COMODINO
Sto leggendo il nuovo libro di Ester Viola che si intitola Voltare pagina e racconta d’amore e di libri.
È un tema che come sapete mi appassiona (ne ho parlato tanto anche nel mio libro La verità è che non ti piaci abbastanza).
Con Ester faremo una diretta Martedì 31 gennaio alle 21.30. Spero siate numerosi!
Potete acquistare il libro a questo link
Con i denti
Vi rinnovo la lettura di questo libro che parla di maternità, stereotipi, amore verso i figli che spesso non è come ce lo immaginavamo.
Avrei fissato la diretta di confronto con chi lo sta leggendo a Martedì 21 febbraio.
Se volete già prenotarvi per partecipare rispondetemi a questa mail.
Se non l’avete ancora fatto, potete acquistare il libro a questo link
Sono ancora arenata su La vita intima di Ammaniti ma perché questa settimana mi sono dedicata moltissimo alla rilettura della mia amata Virginia Woolf per gli incontri che farò (non vedo l’ora anche se mi sto preparando molto) alla Libreria Virginia e Co.
#CINEFLANEUSE
Questa settimana non sono riuscita a vedere un granché.
Ho visto le prime due puntate di Call my agent Italia (a mio parere meglio quello francese, anche se Sorrentino mi ha fatta molto ridere il suo monologo sui genitori è davvero geniale).
E ho recuperato, la sera prima della candidatura come miglior attore a Paul Mescal (già noto per essere stato il protagonista della serie Normal People) Aftersun.
Film bellissimo di regista sconosciuta ed emergente.
Averlo visto mentre sto rileggendo Virginia Woolf mi ha creato uno strano cortocircuito: per Virginia la memoria è una questione fallace, che non ha niente a che fare con la realtà, ma molto con l’identità (non è sempre vero quello che ricordiamo, ma è vero per noi).
Aftersun è un film fatto di memoria: una donna che – capiamo- è appena diventata mamma ricorda la sua ultima estate con suo padre (un bravissimo Paul Mescal, candidato a sorpresa agli Oscar).
È un’estate di gioie e segreti, sullo sfondo di una Turchia anni ’90. È un film di non detti e di emozione.
Mi ha colpita profondamente.
Lo trovate su Mubi.
A presto,
Marta