Vulnerabilità
Ciao amici,
scusate enormemente per il ritardo, ma è stato un weekend intenso.
Se mi seguite su Instagram conoscerete l’arrivo del piccolo Marcy. Il mio cucciolo di Yorkshire Terrier cuccioloso e peloso.
Devo ammettere che è molto più semplice di quello che mi sarei immaginata. Certo… la scorsa notte è stata una specie di incubo con lui che piangeva nella sua cuccia e io che sono dura come Baby Yoda mi sono alzata e l’ho portato a dormire sul divano (con me ovviamente e non chiudeva occhio). Però. Ecco. Devo ammettere che è stata una delle cose migliori che abbia fatto negli ultimi anni. Superare la paura della responsabilità, affrontare l’ignoto (con la codina nera e gli occhietti) e ritrovarmi piena di tenerezza all’improvviso.
Me lo diceva ieri Maria (la mia amica chiarissima filosofa) “le responsabilità fanno paura prima di prendersele”.
È vero. E ultimamente mi sono resa conto di reagire così a tutto quello che mi capita. Fidarmi del mio istinto, andare incontro a quello che desidero senza preoccuparmi troppo delle conseguenze.
Tanto ormai l’abbiamo capito da quest’anno disperato. A preoccuparci troppo dei prima e dei dopo finiamo soffocati dalle attese. Calcoliamo le distanze, valutiamo le circostanze, agiamo nel mezzo… in quel “tempo presente” che ci è rimasto in cui l’unica cosa che possiamo fare è valutare le variabili e provare a dare il meglio possibile.
A dare ed essere il meglio possibile. Non soffocare dalle ansie, non spaventarci troppo, ritrovare la forza dentro di noi.
La mia forza in queste settimane ho deciso di veicolarla verso la costruzione, qui, di un “nuovo alfabeto”.
Parole “vecchie” che hanno assunto nel corso dei mesi sfumature nuove.
Ho deciso di segnarle qui per non dimenticare.
Vorrei che questo percorso fosse condiviso… se per ogni parola vorrete mandarmi il vostro significato ve ne sarei grata.
Non ho alcuna ambizione di farvi delle “lezioni”. Nessuna aspirazione a diventare una guru. Ma semplicemente riflettere con voi su dei termini, offrire delle chiavi di lettura. Delle nuove prospettive come scrivo spesso, diverse angolature che ci portino non dico a cambiare ma almeno a pensare.
Trovare nuove chiavi per raccontare le nostre storie.
Io credo nel potere delle storie, quelle che leggiamo e quelle che scriviamo nella nostra testa.
Quei pezzi di noi esistono, a volte basta solo dargli una voce.
VULNERABILITA’ - contro un pensiero troppo positivo
Vi sembrerà curioso ma trovo necessario iniziare dalla fine e dunque dalla V.
Vulnerabilità è diventata una parola di uso e consumo comune.
Siamo “tutti vulnerabili”, “il bello della vulnerabilità”. “Trova la vulnerabilità che c’è in te e fanne una forza”.
Tutto bellissimo e assolutamente condivisibile, ma se si scava un po’ di questa vulnerabilità si perdono i contorni.
Diventando un concetto evanescente e un po’ fumoso.
Cosa significa essere davvero vulnerabili? Perché la vulnerabilità è una forza?
È vero in questo 2020 (che è passato per fortuna ma rimane nelle nostre orecchie) ci siamo accorti di essere limitati, spaventati e fragili. Vite stravolte, abitudini stravolte, nervi a fior di pelle, sentimento di sopraffazione.
“La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo. A differenza del motociclista, l’uomo che corre a piedi è sempre presente al proprio corpo, costretto com’è a pensare continuamente alle vesciche, all’affanno; quando corre avverte il peso e la propria età ed è più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita. Ma quando l’uomo delega il potere di produrre velocità a una macchina, allora tutto cambia: il suo corpo è fuori gioco e la velocità a cui si abbandona è incorporea, immateriale – velocità pura, velocità in sé e per sé, velocità- estasi”.
Scriveva nel suo primo romanzo scritto in francese nel 1995 Milan Kundera.
Il romanzo si intitola La lentezza e mi ha sempre affascinata. La trama è debole (siamo in un hotel dove si ospita un convegno di entomologia e le vite di alcuni dei protagonisti, tra cui l’autore, si incrociano). Sullo sfondo riflessioni esistenziali che mescolano Epicuro al concetto di lentezza. L’amore, l’erotismo e tante altre cose che fanno parte dell’esistenza.
Per Kundera la velocità è dimenticanza, la lentezza ricordo. Ciò che si vuole “ricordare” si vive con lentezza, tutto il resto viene fagocitato dalla velocità.
L’ho riletto in questi mesi e mi è sembrato tanto vicino e attuale.
Se ci pensate... il 2020 ci ha fatto scendere dalle nostre motociclette, dalle “velocità- estasi” e ci siamo tutti ritrovati a indossare scarpe da corsa e correre come forsennati per il Naviglio (almeno voi che non soffrite di mal di schiena come me che sto scrivendo questa newsletter sdraiata sul divano nell’unica posizione che riesco a sopportare).
Siamo rimasti a piedi, a sentire i nostri corpi, le nostre età, gli errori, gli sbagli ci sono caduti addosso.
Runner “vulnerabili” che cercano di trovare rimedio (sudando e correndo al Parco Sempione) a ciò per cui non c’è rimedio.
Accettarsi.
Vulnerabilità deriva dl latino e significa “colui che può essere ferito”.
Vi ricorderete che l’Iliade, il poema della guerra e degli eroi, è in realtà un poema sulla vulnerabilità. Achille va incontro alla disfatta (per vendicare un amore per altro, ma questa mia lettura potrebbe risultare troppo romantica agli occhi dei grecisti) e viene ucciso a causa della sua unica vulnerabilità… il tallone che la mamma Teti “puciandolo” (è brianzolo non è italiano ma spero capirete) nella fonte dell’immortalità aveva lasciato scoperto.
Achille viene ucciso, vero. L’eroe non è invincibile.
Ma senza questa morte non ci sarebbe stata la letteratura.
Forse, a bene pensarci, la sua morte lo rende un eroe vero, a tutto tondo. Un essere mortale vincibile che sfida il rischio, dimostrando ancora di più il suo valore. Il suo coraggio nell’affrontare il nemico.
In psicologia una sindrome, che da quel che ho capito è molto simile allaSindrome dell’impostore, che si chiama la Sindrome di Achille che affligge chi ha avuto successo ( o anche no) nella vita ma sente di avere dei punti deboli. Non si sente adeguato, sente che le sue sono “pseudocompetenze” non vere competenze. Praticamente quello che provo io tutti i giorni da sempre e cerco costantemente di mettere pezze (studiare di più, lavorare di più, leggere di più).
Se siete interessati all’argomento esiste un libro che si chiama Sconfiggi il nemico che è in te di Petruska Clarkson.
Se ci atteniamo all’etimologia possiamo distinguere le “fragilità” dalla vulnerabilità concentrandoci su ciò che ci rende più deboli. Quella parte di noi col nervo scoperto, che può essere colpita e ferita e morte.
Nel mio caso? Certamente la paura di essere abbandonata, l’ansia di non essere all’altezza, il terrore di non essere in grado. Di fare, essere amata, amare.
Sul web potete trovare questo Ted piuttosto famoso di Brene Brown che di mestiere studia il senso di vergona, la paura e di conseguenza la vulnerabilità e il coraggio che ne deriva.
In buona sostanza ci ricorda che il coraggio deriva dalla vulnerabilità nella misura in cui è proprio quando riconosciamo i nostri limiti che sappiamo porvi rimedio. È riconoscendo i nostri punti deboli che riusciamo ad attraversarci e dare il meglio di noi.
Non è comportandoci da duri e puri che siamo valorosi. È esattamente il contrario. È mostrando il nostro tallone d’Achille, dicendo… ok.. questo è il mio tallone, ma io combatto comunque.
Non è “non chiamandolo, non facendomi sentire, non dimostrando nessun sentimento” che siamo eroi.
Siamo eroi quando accettiamo di mostrare ciò che può essere ferito.
Virginia Woolf aveva una paura pazzesca di non saper fare l’unica cosa che desiderava ardentemente fare con tutto il cuore: scrivere.
E tutti i giorni, costantemente, superando le sue fragilità, le sue rotture, le sue paure, le sue crisi di non senso, si sedeva sulla poltrona e la mattina scriveva a mano, il pomeriggio copiava tutto con la macchina da scrivere.
Ha affrontato il suo desiderio rischiando di essere ferita a morte. Non mettendo la testa sotto la sabbia. Non fingendo che quello che le interessava davvero fosse altro. Ma scrivendo, scrivendo, scrivendo. Sbagliando e riprovando. Dannandosi per questo, soffrendo, ma essendo coraggiosa.
Carrie Fisher sapeva di soffrire di sindrome bipolare (ed è molto simpatica quando ne parla nella sua autobiografia I diari della principessa dice più o meno così: fortunatamente so di essere in buona compagnia… Vivien Leigh, Sylvia Plath, Yves St. Laurent, Cole Porter,…) e sapeva anche che doveva affrontarsi e affrontare questa malattia. Rischiando di essere ferita a morte, ma scommettendo di sopravvivere.
Ecco. Io credo che il senso di vulnerabilità “nuovo” che possiamo darci sia questo. Non tanto “accettare che lo siamo”. È già un buon punto di partenza… ma non è sufficiente.
Vedo un sacco di persone che per paura di non essere ferite preferiscono non vivere. Non affrontarsi. Non affrontare gli altri. Si dimenticano i sentimenti. Non si mettono in ascolto.
Ostentano sicurezze fasulle che hanno l’unico scopo di nascondere ciò che desiderano davvero.
Si buttano nella “velocità” per non rendersi conto di quello che davvero li porterebbe ad “andar oltre”.
La vulnerabilità è un punto di partenza. Riconoscere le nostre vulnerabilità significa chiamarle per nome e domandarci… cosa posso fare io per accoglierle e rendermi migliore?
“Be afraid but do it anyway” diceva Carrie.
Rimarremo sempre spaventati. Sempre terrorizzati di essere feriti a morte, ma evitare il rischio non risolve il problema.
Io sono stata ferita a morte. Molte volte in molti modi.
Sono stata ferita da una persona che amavo.
Sono stata ferita da persone con cui lavoravo e di cui mi fidavo.
La mia prima reazione è stata bloccarmi.
È stata dire “io non posso” “io non sono capace” “io non sono in grado di avere una relazione” “io non sono in grado di fare questo lavoro”.
Poi ho rischiato. E sto rischiando ancora. E mentre rischio ho paura, ma più mi metto in ascolto di me stessa e di quello che desidero nonostante la mia vulnerabilità, più sento di avere dentro di me la forza.
E non è una forza solida, dura fatta di incaponimento e testardaggine.
È una forza morbida e flessibile. È quella forza che ti fa dire “ok, se voglio questo, magari posso provare altre strade”
“magari posso provare a mostrarmi più comprensiva, magari posso fare io il primo passo, quella prima telefonata, quel primo invito”.
Magari, per prima, posso mostrare una forma di tenerezza.
Senza aspettarmi sempre qualcosa dagli altri (quel proiettare le nostre aspettative sull’altro come scrive Miriam Toews nel passo che ho letto nel podcast in cui parlo di lei… nel romanzo Swing Low il padre si rende conto di aver sbagliato con sua madre buttando addosso a lei le aspettative che lui aveva…ed è un’operazione sempre fallimentare).
Senza aspettare che sia il mondo a dover riconoscere i miei limiti e le mie fragilità e darmi una mano.
Accettare la nostra vulnerabilità è un atto di consapevolezza che però si vanifica se non poniamo rimedio. Se rimaniamo fermi immobili. Se non rischiamo.
Quando ho adottato Marcy avevo paura. Avevo paura di non poterlo gestire. Avevo paura di non poter uscire dal mio egoismo.
Mi sentivo incapace di affrontare un impegno così grande (un cane? Io che non al massimo ho vissuto per 9 mesi con un’altra persona… che poi è scappata) ma lo desideravo.
Ora lui è qui che dorme sotto il mio sedere mentre scrivo queste righe e l’unica cosa che mi viene da pensare prima di salutarvi miei cari amici vulnerabili…è …
L’amore dà sempre.
Mai toglie.
Eh si. Conviene sempre mettere a rischio il nostro tallone.